Ci sono film che non sai come prendere, tanto sono fuori da ogni schema di riferimento noto. Dovrebbe essere il pregio di un’opera d’arte, ma poi quando capita davvero ti spiazza: non ti senti sicuro se sono capolavori assoluti o follie fini a se stesse, il dubbio ti tarla. Nella categoria possono rientrare tutto l’ultimo Lynch (con cui inaugurammo il sito), Solo Dio Perdona e Neon Demon di Refn, Enter the Void o Climax di Noé, Antichrist di von Trier e Madre di Aronofsky. E in parte quel capolavoro di Hereditary (da noi non recensito solo perché visto dopo l'uscita in sala), debutto di Ari Aster e praticamente unica pietra miliare nel ripetitivo filone del cinema di possessione a non ricalcare le tracce de L’Esorcista.
Ora Midsommar, secondo film del regista nelle sale italiane dal 25 luglio, irrompe nella scomoda famiglia a passo di carica, condividendo col suo predecessore solo la definizione di horror occulto presa nel senso più ampio possibile e l’innesco narrativo della trama affidato a una terribile tragedia familiare, che scuote l’esistenza della 23enne Dani Ardor (Florence Pugh): per il resto i due film di Aster si differenziano come il giorno dalla notte.
Infatti, laddove Hereditary si svolgeva perlopiù in interni buî, Midsommar è tutto esterni luminosi, fin accecanti, come quell’interminabile notte dell’estate svedese che contribuisce allo straniamento dei personaggi (e che il regista però ha ricostruito su un set ungherese!).
È lì che Dani, col fidanzato Christian (Jack Reynor), un’altra coppia britannica e un paio d’amici di Christian, si reca accogliendo l’invito di Pelle, originario del profondo nord scandinavo, che ha promesso ai compagni di università di far loro assistere a un atavico rituale di rigenerazione, retaggio degli abitanti di quelle profonde foreste che viene officiato solo una volta ogni 90 anni.
Appena arrivato, il mal assortito drappello – Christian sembra sopportare la fidanzata per pietà più che per vero amore, gli amici lo spronano a lasciarla per “farsi le svedesi”, lei non si sente supportata nel dramma – pensa bene di stonarsi un po’ coi funghi allucinogeni, sicché subito l’idilliaco ambiente silvestre comincia ad assumere connotazioni meno rassicuranti. E lo spettatore, attendendosi un horror, già prevede che i sei finiranno legati a un altare fiammeggiante per essere sacrificati a qualche oscura divinità cornuta e zoccoluta.
Invece, vengono accolti a sorrisi e fraterni abbracci dall’ospitalissima comunità new age para steineriana del villaggio agreste di Hårga, tutti in tuniche bianche e serti di fiori fra i capelli, in un Eden di natura ridente e paradisiaca.
Aster è di una bravura mostruosa nel dosare l’inquietudine a microgocce omeopatiche in un contesto tanto rassicurante, da lui minuziosamente creato col suo team tecnico che ha ideato i costumi bianchi (Andrea Flesch) e i relativi simboli runici, le pitture naif finto arcaiche (qui ai lati, di Ragnar Persson) che decorano ogni centimetro quadro dello chalet di legno in cui la comunità si ritira la sera (scenografie di Henrik Svensson, che ha studiato a fondo col regista cultura e folklore svedesi), le musiche (The Haxan Cloak, nomen omen), persino l’Affekt, impenetrabile lingua arcaica della bizzarra congrega.
In questo luminosissimo mondo da fiaba, l’oscurità s’insinua per minimi dettagli: la ripresa dell’arrivo dei ragazzi in auto capovolta, certi gesti rituali che risultano incomprensibili agli stranieri, la parlata inintelleggibile e quel complesso sistema di rituali esoterici che sembrano così armoniosi ma si rivelano rigidissimi (un’incosapevole pisciata contro un albero “sacro” rischia di degenerare in furia cieca). E che squarciano all’improvviso la soavità del clima umano con un’esplosione di violenza, tanto più sconcertante in quanto incomprensibile, autoinflitta e paradossalmente accettata come “naturale” dall’intera comunità: due anziani si gettano da una rupe, “perché era terminato il loro ciclo vitale”, spiegano i confratelli. L’una si sfracella orribilmente, l’altro viene finito “pietosamente” a mazzate (foto a lato), nell’orrore dei giovani yankee.
È così che inizia l’incubo per questi ultimi, che non vi racconterò perché merita di essere scoperto passo a passo, come tocca ai poveri studenti, che già si disputavano la scelta di fare la tesi di laurea sugli esotici rituali folkloristici dell’antica comunità. Un incubo che coinvolge anche noi spettatori, attratti nella sanguinosa rete con lo stesso sguardo inconsapevole del “turista” curioso che crede d’aver fatto un’originale scoperta mentre in realtà, a dispetto degli studi di psicologia o antropologia, ben poco capisce di tradizioni più ataviche dei miti e degli dèi (che incidentalmente formano un fil rouge con altre complesse quanto diversissime opere filmiche recentemente analizzate anche sulla scorta dell’antropologia “licantropica” dei riti orgiastici di Eisler).
L’imbelle sottotitolo italiano – Il villaggio dei dannati – sicuramente pensato dalla distribuzione (Eagle) per rassicurare lo spettatore medio di trovarsi di fronte all’horror promesso (definizione in cui Midsommar sta comodo quanto poteva starci Hereditary), in realtà disorienterà molti: come avrete capito, non ha nulla a che vedere con la cinesaga fantascientifica di Rilla/Carpenter tratta dal romanzo I figli dell’invasione di Wyndham, qui se mai ci troviamo dalle parti del Wicker Man del 1973 (da noi colpevolmente mai distribuito, ci permettiamo di suggerire un recupero in hv per l'occasione), di cui Midsommar potrebbe essere un remake apocrifo più psicologicamente e filosoficamente ambizioso, oltre che incommensurabilmente superiore al mediocre Il Prescelto di Neil LaBute coll’insipido Nicolas Cage.
Più ambizioso perché alla fine capiamo che mentre l’esoterica comunità si rivelerà spietata verso i giovani americani, il processo di rigenerazione tutto al femminile che attraversa la sola Dani-“Regina di Maggio” le “permette di provare tutte le emozioni travolgenti che stava sopprimendo”, come spiega Aster, per tema di pesare troppo sull’egoista fidanzato.
“Hårga dà a Dani quello che le manca nella sua vita e le porta via quello che lei non ha avuto il coraggio di eliminare”, continua il regista, chiaramente più interessato appunto al percorso esistenziale della sua protagonista che alla suspense e ai jump scare. Pertanto, come nella tragedia greca, al dolore fa seguito comunque una "crescita", una vera e propria rinascita del personaggio.
Ed ecco che forse la citazione di Madre all’inizio risulterà non solo motivata dall’essere un film “difficile”.
Attraverso la sua superba, meticolosa regia fuori dal mondo Aster fa percorrere lo stesso cammino anche a noi, che usciamo dalla sala trasognati e disorientati come sempre dopo uno degli sconcertanti capolavori sopra ricordati, coll’impressione che non guarderemo più colla tranquillità d’un tempo la bianca luce del sole estivo che abbiamo appreso poter essere tanto oscura.
Mario G