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Esiste ancora una musica definibile “d’avanguardia” nel senso classicamente attribuito all’espressione, in quest’epoca post-tutto? Mi son posto la domanda ascoltando il nuovo album degli Iconoclast (Dirty Jazz, appunto, Fang Records 2010), inquieto ma longevo duo newyorkese le cui composizioni – in affascinante (dis)equilibrio fra jazz, musica contemporanea colta, no wave, hardcore punk e brandelli di varie memorie etniche – voi postumani ricorderete d’aver sentito anche durante il nostro cortometraggio Con gli Occhi di Domani.
Ora il paradosso è: una musica, per quanto difficile e anticommerciale, che ritroviamo fedele a se stessa un disco dopo l’altro, è ancora “avanguardia”? il problema, magari ozioso per qualcuno, si ripresenta per tutti i gruppi (artisti) che han fatto di uno stile, per quanto anticonvenzionale, una griffe duratura nel tempo. Un nome per tutti, i Sonic Youth, emersi pure loro dal vulcano della no wave di NY e ora “star” del rock alternativo, con vendite di certo molto superiori ai defilati Iconoclast (che non hanno nemmeno una distribuzione italiana). Ad un certo punto, la domanda che ci si pone è: alternativi a cosa? Forse dovremmo parlare semplicemente di musica “facile” e commerciale, che può piacere a milioni di persone in tutto il mondo, e di musica/musiche “difficili” e difficilmente commerciabili, che piacciono a nicchie numericamente ristrette di fan nerastri e irriducibili.
Come noi, che ormai non ci illudiamo più di stare ascoltando la musica “nuova” che cambierà il mondo (un ideale ben radicato nelle avanguardie storiche del ‘900), ma semplicemente quello che ci piace, che si sposa con le nostre contorte visioni, che riesce ancora a sfidarci e interessarci, anche se non diventerà mai “la musica d’attualità” di un presente di là da venire.
Se non radicalmente differente dai suoi predecessori, Dirty Jazz è probabilmente il disco più ricco, completo e anche (udite udite) forse il più ascoltabile messo insieme dai due terroristi sonori: fate caso per esempio ai delicati chopinismi pianistici di The Forbidden, seguiti da caldi coltranismi sassofonistici (anche in You’re in Distress o Aprés Vous); o all’impensabile fraseggio r’n’b suonato all’Hammond da Leo in Boiled Kneepads.
Non che manchino le urla dissennate, i violini scorticati come chitarre elettriche (vedi foto qui a destra), i cambi di tempo e atmosfera repentini e spiazzanti (The Punishment Office, Mistaken Seduction, Accidental Touching) cui (perdonate l’ossimoro) gli Iconoclast ci hanno ormai abituati, sia chiaro. Ma sull’insieme si stende un velo di lirismo (soprattutto nell’uso del sax alto di Julie) che ci fa dire… che la soglia della maturità si sia spostata ormai oltre i 50?!
Cercate Dirty Jazz, non è un album che troverete facilmente nei megastore ma lo sforzo vi premierà più che proporzionalmente.
A noi ha già fatto tornar la voglia d’avere un altro film pronto da sonorizzare con le loro follie.
Mario G