«Che cosa abbiamo sbagliato
…
Quello che vedrete è il monumento a un fallimento.
Un fallimento storico?
Un fallimento sociale?
Un fallimento individuale?
Quale fallimento?» (*)
È l’inizio di C’è un diritto dell’uomo alla codardia, spettacolo diretto da Renzo Martinelli, in scena al Teatro I fino al 14 dicembre. Ma di che fallimento si parla appunto? Il testo reca la firma di un team di ben quattro giovani drammaturghi (Francesco Alberici, Stefano Cordella, Héléna Rumyantseva e Giulia Tollis), guidati dalla dramaturg Francesca Garolla e dal regista stesso in una rielaborazione/omaggio a Germania 3. Spettri sull'Uomo Morto, ultimo testo di Heiner Müller, che morendo nel 1995 lo lascia incompiuto.
Testo il cui focus era decisamente politico e strettamente legato alla storia della Germania Est e all’esperienza esistenziale del grande drammaturgo, che appunto vi rimase per tutta la vita “perché nella DDR c’è la letteratura migliore: Brecht, Seghers, Šolochov, Majakovskij”, pur a prezzo di perdere i rapporti col padre, esule in Occidente dopo diverse persecuzioni politiche da parte del regime comunista. Al quale Müller, pur nella consapevolezza della sua natura dittatoriale e quindi in presumibile conflitto interiore, rimane fedele fino all’abbattimento del Muro di Berlino. Che infatti non festeggerà punto, non trovando più un senso in un “teatro senza dittatura”, ormai divenuto (come si legge nell’articolo qui sopra linkato) “mercato” come tutto il resto nella nuova Germania unita nel segno del marco.
Fallire nella Storia
Questi i nodi di Germania 3, testo che contiene appunto la frase C’è un diritto dell’uomo alla codardia – titolo anche di un’intervista sui rapporti fra Müller e la Stasi – che ora intitola il lavoro di Martinelli e del suo team. Un testo definito dal regista stesso “teatralmente irrappresentabile nella sua forma filologica, eppure molto importante”: astratto e totalmente antinarrativo nel suo svolgimento, infatti, non ci concede neppure l’appiglio di un personaggio verisimile di cui seguire le evoluzioni psicologiche, giacché accanto a personaggi comuni, emblemi del nostro presente, vi aleggiano come fantasmi “personaggi storici (da Rosa Luxemburg a Stalin, da Hitler a Brecht, con cui pure Müller fu in polemica) che compaiono sulla scena privi di carnalità, proiezioni esemplificative di ideali o stati d'animo più generali, propri di un'epoca o di un popolo”.
La riscrittura, frutto di un lungo lavoro di drammaturgia di scena che ha coinvolto insieme regista, autori e attori, mantiene pienamente l’astrattezza antinarrativa e l’impianto mülleriano: nove quadri giustapposti senza consequenzialità come dipinti in una mostra, frammenti che rievocano ciascuno le forme di un diverso genere teatrale (dramma borghese, teatro epico, farsa etc.), ma decontestualizzando la visione storica dell’autore tedesco, in modo che lo spettatore italiano del 2015 possa vedervi riflesso non tanto il fallimento del marxismo nella Germania Est, quanto quello di cui egli stesso è testimone e che si rinnova costantemente nell’agire umano ad ogni livello.
Fallire in tutto, con metodo
Fallimento della politica, certo, con quei candidati pomposamente magniloquenti sul nulla, dediti solo a conquistare il microfono della visibilità mediatica, come starlette in un varietà televisivo in cerca del proprio quarto d’ora di successo a furia di colpi bassi (l’attrice che si denuda in scena quando gli altri accennano a spogliarsi). Ma anche fallimento personale, affettivo e relazionale (la scena finale delle telefonate per lasciare messaggi ad amici/genitori/amanti con cui si è persa l’occasione del dialogo). Fallimento della memoria, la perdita delle nostre stesse radici, nella scena in cui i sei attori seduti sulle tavole del palcoscenico giocano a “raccontarsela grossa” come bambini (quelli che appunto non hanno memoria di ciò che è stato prima e danno spiegazioni fantastiche ad ogni fatto strano.
«Quando è iniziato tutto, quando è finito tutto.
Io non c’ero ancora.
Non ho dimenticato, semplicemente non ero nato» (*).
“Ti ricordi quando sei morto?” (*)
Un tema centrale, questo, del “Diritto alla Codardia”, che smuove il dramma del “non sapere in fondo è meglio”, ci spiega il regista: «se ad esempio vedo polli con due teste, forse è meglio non sapere che sono mostri frutto di esperimenti con la radioattività, ma pensare che “così avrò più polli da vendere al mercato”. Perché sapere comporta inevitabilmente prendere posizione, assumersi responsabilità», uno dei rischi che la società contemporanea tende ad evitare più accuratamente. So di vivere in una dittatura (o in un simulacro vuoto di democrazia)? Mi toccherà prendere posizione: collaboro o mi oppongo? Lancerò bombe molotov o acquiescerò dolcemente? Se so d’aver lasciato inaridirsi il dialogo con una persona cara, invece, cosa farò? Mi assumerò la responsabilità di questo vuoto e cercherò di riempirlo prima che sia troppo tardi, oppure troverò comode scuse che mi parino il didietro?
E se nemmeno riesco a mettere in scena la rappresentazione teatrale destinata ad evocare il problema? Questa la cornice meta teatrale in cui si svolge lo spettacolo: gli attori sono già in scena quando noi entriamo, appaiono in preparazione appunto di una messinscena che non riesce mai a prender forma, fallendo come tutto intorno ad essa. E preparandosi a ricominciare inesorabilmente alla fine.
«E poi?
Da qui come andiamo avanti?
Come finisce lo spettacolo?» (*)
Perché “adesso tocca a voi”. Ci toccherà prendere la nostra posizione.
“Una volta gli anziani si facevano da parte per fare spazio ai giovani” (*)
Se concede assai poco all’intrattenimento (a parte il momento “pop romantico” in cui va Your Song di Elton John), in compenso il “Diritto alla Codardia” del Teatro I (primo passo del progetto TO PLAY, destinato a proseguire nelle prossime stagioni) fa qualcosa di cui si depreca continuamente la mancanza: “dà spazio ai giovani” (slogan abusato come una marcia militare sovietica quanto negato nella pratica), facendo debuttare sei attori appena diplomati in diverse scuole di recitazione, bravi e convinti. Vale la pena nominarli tutti: sono Liliana Benini, Cristina Cappelli, Daniele Crasti, Marco De Francesca, Giulia Mancini e Mauro Sole (nelle foto di scena ai lati), tutti sui 22/25 anni, come del resto anche i drammaturghi alle prese col testo.
Si impegna su un’idea di teatro “necessario” e non manieristico, facendo lavorare (non secondario, retribuiti come sempre più raramente accade in ogni campo della cultura, non solo teatrale, in cui si dà pelosamente per scontato che tutti si agisca per la gloria) su una tenitura ben più lunga degli ormai abituali 3/5 giorni in cui molte nuove produzioni appaiono e scompaiono prima che si sia riusciti a programmarsi quando andarle a vedere.
Noi arriviamo un po’ in ritardo con l’articolo, ma voi avete ancora una settimana buona per decidere che “adesso tocca a voi”.
Mario G
P.S.: i brani (*) sono tratti dal testo di scena, per gentile concessione del Teatro I.
Posthuman ringrazia il regista Renzo Martinelli per la collaborazione e la disponibilità, Roberto Rognoni per le foto di scena.