Con la sua citazione deodatiana nel titolo (Green Inferno è il titolo della seconda parte di Cannibal Holocaust), esce il 24 settembre nelle sale italiane (col divieto V.M.18) a ormai due anni dalla produzione – distribuito da Koch Media con la potente locandina che vedete in apertura (che pare abbia mandato in visibilio lo stesso regista, accanto quella internazionale) – il molto discusso ultimo film dell’enfant gâté dell’horror made in USA, aperto (anche se non accreditato) omaggio allo storico cult italiano dell’80.
Beninteso, un remake circa come il Django del suo amico Quentin lo è del western di Corbucci: qui la vicenda parte da un gruppo di studenti universitari americani impegnati contro lo sfruttamento indiscriminato delle foreste peruviane da parte delle multinazionali energetiche, che per avidità di gas naturale rischiano di estinguere le ultime tribù selvagge dell’area che van disboscando.
Il piano è incatenarsi alle ruspe capitaliste filmando lo scempio coi telefonini e diffondendo le clip via satellite e social network in tutto il mondo. Lo scoop riesce (anche se a rischio vita della malcapitata protagonista Lorenza Izzo/Justine, nomen omen) e il mondo dei media globalizzati risuona istantaneamente delle gesta dei ruspanti “greenpeacer” americani.
Purtroppo, il loro volo di rientro ha un incidente, precipita in piena jungla e i superstiti si trovano faccia a faccia coi nativi che volevano salvare. I quali però sono assai meno “buoni selvaggi” di quanto i benintenzionati giovini immaginassero e nei ben nutriti yankee vedono solo succulenti hamburger viventi. La sciamana del villaggio – sorta di Keith Richards femminile in salsa Pirati dei Caraibi (Antonieta Pari, foto a lato) – ispeziona e sceglie le prime “portate”: inizia così la mattanza, in puro stile cannibal/mondo movie.
Eli (non uno di mano leggera certo) non ci nega nulla, occhi cavati, arti amputati, gole e teste tagliate, vomito e diarrea en plein air delle vittime (e anche un’inattesa masturbazione maschile di scorcio nel serraglio dei prigionieri), anche perché in fondo quello è proprio il suo piatto forte e va detto che due o tre uppercut dei suoi fanno davvero sussultare (e il sottoscritto ne ha visti di horror). Nonostante la grossolanità dell’impianto di trama e psicologie e l’inverosimiglianza di molte situazioni, su tutte (spoiler trama) la ragazza suicida imbottita di marijuana che manda “in acido” l’intero villaggio colle sue carni tossiche, consentendo così un tentativo di fuga ai compagni prigionieri (fine spoiler).
Certo, Roth – attento come del resto il sodale Tarantino al mercato americano – non è l’indipendente Deodato e il 2015 non è l’80 del cinema bis: lui va giù duro colle frattaglie ma sta molto attento a non far balenare nemmeno un capezzolo delle sue procaci ecologiste, per cui persino la loro drammatica ispezione genitale da parte della sciamana si svolge… con su le mutandine! Ma tutto ciò si sapeva anche prima di vedere il film.
Però la sceneggiatura di Roth e Guillermo Amodeo riserva anche un paio di inattesi twist di trama che vale la pena di approfondire. Premessa: il film di Deodato mostrava che alla fine i veri “selvaggi” erano i “civili” occidentali a caccia di scoop. In The Green Inferno, anche se scopriremo che c’è del bel cinismo anche fra gli attivisti catturati, i mostri son proprio i nativi, quindi ti chiedi: allora Roth, oltre che grossolano registicamente, ha pure “normalizzato” il discorso alla classica morale made in USA che fuori dalla nostra porta c’è solo barbarie?
Il dubbio rimane fin quasi alla fine, quando una serie di colpi di scena mette in discussione questa visione del “Roth sciovinista”.
Il primo avviene quando (spoiler trama) l’unica superstite del gruppo viene salvata dal banchetto cannibalico proprio dalle squadracce di sterminatori al soldo delle multinazionali (fine spoiler); il che allinea il discorso dalle parti dei film sui giustizieri: la violenza è sì fascista, ma quando i cattivi minacciano la mia vita, comincio a vederla con altri occhi. O comunque devo concludere che selvaggi lo sono tutti, quindi almeno sto con chi mi salva la pelle.
Il secondo è ancora più spiazzante: (altro spoiler trama) la superstite, una volta ritornata in patria, interrogata da una commissione d’inchiesta delle NU (in cui c’è anche suo padre) sui drammatici fatti accaduti nella foresta amazzonica, sceglie di non smentire la consolatoria favola del “buon selvaggio” che i media occidentali s’aspettano, attribuendo tutte le morti al disastro aereo e dicendo che gli indigeni caritatevoli hanno curato lei riportandola verso la civiltà (fine spoiler).
Perché lo fa? Per estrema convinzione nella propria missione umanitaria, nonostante i traumi subiti o per lasciare nelle loro mani l'odioso Alejandro (Ariel Levy, nella foto sopra accanto al relitto dell'aereo), cinico capo spedizione? O piuttosto per l'estremo calcolo di trarre fama mediatica personale dalla disavventura ormai superata, raccontando al mondo quel ch’esso è disposto ad ascoltare e non l’inaccettabile verità dell’homo homini lupus?
A voi l’ardua sentenza: noi propendiamo per la seconda, che fa di The Green Inferno (Qui e QUI un paio di clip) un film non certo raffinato o intellettualmente “elegante”, ma neanche privo di spunti di cui discutere.
Personalmente non sono mai stato un fan della Hostel saga, ma qui il sanguinario Eli ha trovato anche modo di sorprendermi con un fulmen in clausola che non m’aspettavo.
Ah, rimanete seduti anche durante i titoli di coda: mentre rimettete in ordine i visceri (vostri) c’è un ulteriore sottofinale che parrebbe preludere a un sequel…
Mario G