Nell’ormai immancabile flashback in p.o.v. iniziale, vediamo Eve ridere e scherzare ripresa dal fidanzato.
Stacco: un energumeno guida un pick up in una nowhere land americana. Entra in una squallida baracca, si mette a cucinare una zuppa, poi scende in cantina e… sorpresa! La offre ad Eve, incatenata seminuda e malconcia a un lurido materasso.
Scopriremo poi che la poverina è prigioniera lì da circa sei mesi, durante i quali le “hanno fatto cose terribili”. Addirittura, una precedente compagna di prigionia incatenata nello stesso scantinato sul materasso accanto ci ha lasciato le penne.
Ma Eve è una tosta: si finge incosciente ma non lo è affatto e riesce a stendere il suo carceriere con una mattonata. Ora lei è libera e lui incatenato. Fine del film? No, siamo sì e no a 5’ dall’inizio!
Adesso comincia il bello (e un po’ anche l’assurdo): invece di fuggire, mettersi in salvo, chiamare la polizia e così chiudere il dramma, la protagonista – scoperto dall’orco che ci sono altre prigioniere in altre baracche – decide di provare a salvarle da sola, sfruttando la conquistata posizione di vantaggio (tiene sotto tiro il bruto colla sua stessa pistola).
Inizia così un’odissea a due che potrebbe in parte ricordare un Collateral di Michael Mann in salsa rape’n’revenge, che non ci lesina alcune sorprese anche originali, per un thriller che comunque non si eleva al di sopra del medio livello. Infatti (spoiler trama) le altre ragazze ci sono davvero, ma le prime due appena slegate andranno incontro a un’amara fine, per motivi diversi ma comunque lasciando alla protagonista-salvatrice la sensazione di essere responsabile delle loro terribili morti (sensazione su cui gioca cinicamente il carceriere catturato cercando di recuperare il vantaggio perduto sulla sua ex vittima). FINE SPOILER
A questo punto il film prende un andamento che in qualche modo mi ha ricordato vagamente un impianto mortal-ludico alla Saw: un tratto di strada per portare avanti la sfida fra Eve e il suo carceriere-ostaggio, poi una nuova stamberga e lì una nuova sfida per liberare altre vittime, affrontando nuovi pericoli. E scoprendo ad ogni tappa un tassello in più sul senso del suo (loro) rapimento, sul feroce network che ha fatto del sequestro di graziose ragazze sui 20 anni un’attività non meglio precisata ma si comincia a supporre lucrosa. Infatti una delle fanciulle liberate parla di “clienti che acquistano prima le più carine. Un’attività in cui sembra coinvolto anche qualcuno di molto vicino alla protagonista, che renderebbe il ritornello (più volte ripetuto) “non era niente di personale” una crudele tragedia nella tragedia.
L’idea non è male, anche perché si collega direttamente a casi (quelli delle ragazze rapite e tenute segregate a volte anche per anni, sia in Europa che negli USA) cui la cronaca nera recente ci ha costretti ad assistere anche al di fuori della pulp fiction. Ma non basta ad iscrivere il film del debuttante messicano J. M. Cravioto al rango di cinema di “indagine sociale”: Reversal rimane un medio thriller ad effetto da intrattenimento: meno macchinoso di un Saw, con qualche buona trovata, ma anche meno geniale a livello di scrittura, nei dialoghi e nella recitazione di interpreti che non lasceranno il segno.
Al confronto, una qualsiasi puntata di True Detective schizza di colpo al livello di un Seven, per dire. E qui so d’arrivare buon ultimo alla constatazione che ormai le migliori serie tv sono più interessanti del prodotto cinematografico “di scuderia”, ma il confronto diretto (personalmente, mi sono appassionato in questo periodo alle prime stagioni di Penny Dreadful e appunto True Detective) mi fa balzare il dato davanti agli occhi senza possibilità di dubbio.
Peccato, perché del buono c’è nel breve (solo 80’, saggia scelta) e svelto Reversal; ma una confezione che appunto ormai non si può più nemmeno definire “televisiva”, insieme ad un finale in qualche modo sospeso che ci nega il fulmen in clausola, lo relega a prodotto per una serata con birra e pop corn.
Mario G