Davide Stanzione recensisce il film di Jacques Audiard passato da Cannes e appena uscito in Italia: un cinema di epidermidi e ferite a cielo aperto.
Autore da sempre sintonizzato sui liquami e gli anfratti più oscuri dell’animo umano, Jacques Audiard è uno dei fari più luminosi del cinema europeo contemporaneo, uno dei suoi talenti più viscerali e selvaggi. Il suo è uno stile robusto e struggente che a una grandissima forza di scrittura (il padre, Michel, fu sceneggiatore sopraffino) sa associare una regia possente e coraggiosa, in grado di maneggiare gli istinti animali e le ferite dell’anima più laceranti con una raffinatezza e una classe incommensurabili.
Fa un cinema di corpi, Audiard. Romanzi di (tras)formazione applicati alla fisicità, incentrati su personaggi che nei loro tormentati percorsi ascensionali passano attraverso la deformazione o il cambiamento di sé, protagonisti di racconti in cui ogni morale è sospesa in nome di una vita vissuta pericolosamente. Progredendo o regredendo non importa, quel che conta è non guardarsi mai indietro o tantomeno dentro, ma vivere con esasperato trasporto la propria rabbiosa corporalità, i propri fremiti.
In tal senso, Audiard è forse l’ultimo grande vitalista, il fautore di un’estetica pieghevole che lascia ampio spazio all’esplorazione irregolare ma costante dei sensi e degli aspetti più tattili dell’essere umano. Nel caso del suo nuovo film, “
Un sapore di ruggine e ossa”, presentato in concorso allo scorso Festival di Cannes e nelle sale italiane dal 4 ottobre, alla trasformazione si sostituisce la variante ancor più oscura della menomazione. Quella della protagonista Stéphanie, addestratrice di orche in un parco acquatico, che incappa in un tragico incidente che la costringerà a riconsiderare i parametri e le coordinate di base della propria esistenza e il rapporto in precedenza solo abbozzato con Ali, uomo privo di stabilità con a carico un figlio piccolo che conosce appena e un’insaziabile pulsione autodistruttiva per le lotte clandestine.
Costretta su una sedia a rotelle, Stéphanie esplorerà forse per la prima volta la cruda bellezza che il mondo sa concedere a chi ha la rapacità e la forza di assaporare la ruggine sanguinante e il sapore metallico di una ferita, di sopportare il doloroso spezzarsi di un osso, di scorgere il brutale e cocciuto miracolo che si cela dietro ogni palpito, anche il più affranto. E il suo rapporto con Ali, prima di poter aspirare a un’intimità più sofferta e vissuta, dovrà passare inevitabilmente attraverso una conoscenza carnale esclusivamente bestiale, che in primo momento si nega i baci sulle labbra e persiste in un’amicizia sensuale ma al di fuori delle lenzuola a suo modo rispettosa, discreta. Un rapporto in cui la mutazione corporale è l’unico veicolo per il divampare di un sentimento, in cui il gesto violento o la tensione al pericolo si fa contrassegno inequivocabile di psicologie disturbate.
Si potrebbe dire che il cinema di Audiard muove dalla fascinazione conflittuale e
contraddittoria per la ricerca dell’incanto in quei luoghi e in quegli spazi angusti nei quali la luminosità fatica tanto più ad annidarsi. Una tensione che emerge anzitutto dall’interfaccia con il tessuto visivo dei suoi film: già a guardare l’incipit di “
Un sapore di ruggine e ossa” saltano subito all’occhio le sporcizie frontali che affiorano sullo schermo, i grigiori, le onde che si infrangono sulla riva: ne deriva un cupissimo senso di mistero che però, nonostante si tratti del film più grezzo e rude di Audiard, non cede mai il passo all’artificio dell’estetizzazione grossolana.
A dispetto del lavorio continuo sull’impudicizia morale e fisica dei suoi personaggi (“Sono io che puzzo”, dice la Cotillard in una scena di poco successiva all’incidente), il regista de “Il profeta” non inciampa sui tranelli del caso, non incespica sui ralenty che pure utilizza con consapevole frequenza, si sporca le mani con frattaglie di ogni tipo ma mantiene sempre salda la tensione anche melodrammatica della sua storia, per altro ispirata agli ancestrali e potenti racconti del canadese Craig Davidson.
Audiard osa, si sbuccia le ginocchia, è ostinato e tignoso nella sua dichiarazione d’amore a quanto di più epidermico il cinema e l’immedesimazione attoriale ha da offrire. Nel mortificare i corpi dei suoi personaggi tra amputazioni e cazzotti sanguinolenti sferrati alla cieca, Audiard ne esalta al contempo la naturalità priva di freni inibitori. Aumenta all’ennesima potenza la risonanza di tutti i martellanti battiti di un cinema accorato, sempre sul ciglio di un burrone a strapiombo, conscio dei suoi rischi ma voglioso di denudarsi e di donarsi allo spettatore quanto più possibile.
Un cinema che nel suo debordante e continuo sprigionare e rigenerarsi si perde però un po’ per strada sul mero versante del racconto cinematografico. Ed è pertanto per lo meno insolito, per uno come Audiard che è solito maneggiare sceneggiature forgiate divinamente, incappare in qualche passaggio narrativo didascalico, forzato, troppo sbrigativo e facilone, persino improbabile.
Difettucci perdonabili in nome del complesso di un’opera imperfetta ma affascinante, che però qua e là un po’ gravano sulla riuscita e il respiro complessivo. Attribuibili senza troppo rancore a un film che nell’ansia frenetica dell’abbandono totale a una bellezza disperata sacrifica ogni cosa.
Persino se stesso.
Davide E. Stanzione
P.S.: Posthuman offre il benvenuto a Davide, che debutta con quest'articolo, aspettandolo presto per nuovi contributi.