Il più scaltro lettore posthumano lo ricorderà senz'altro citato in nota nella categoria “Fateceli vedere”, la sezione parallela “al concorso ufficiale” durante il quale, a inizio anno, questo sito attribuisce un Oscar simbolico alle principali pellicole distribuite su territorio nazionale. La regola generale è premiare dieci film di livello, che spaziano dal cinema di genere a quello d'autore, a seconda dei gusti personali di chi guarda e recensisce, e segnalare cinque ulteriori lavori (ancora) inediti in patria, ma che in qualche modo spiccano su tutti gli altri per bellezza, compiutezza e profondità. Hors Satan (locandina in apertura) era uno di questi, e nonostante le nostre umilissime geremiadi, sembra destinato comunque a restare tale. Un object de curiosité che, proliferando per qualche festival (Cannes, nel caso specifico), è finito sullo stomaco di molti e ha sobillato l'indiscrezione di pochi.
Hors Satan è la storia di un vagabondo (David Dewaele, nella foto qui a sinistra quello di Hadewijch, 2009) che compie miracoli, resuscita i morti e scaccia i demoni dagli ossessi. Hors Satan è anche la storia di Elle (Alexandra Lemâtre, che vedete praticamente in tutte le altre immagini qui ai lati) una ragazza magrolina e dai capelli corti che, vessata dal patrigno, domanda a questo cristico senzatetto di risolvere il problema nel più radicale dei modi. Hors Satan è infine la storia di un Cristo talmente terreno che ha smarrito il proprio senso del divino, o che pur conservandolo, l'ha definitivamente contaminato con l'aspetto più diabolico e malvagio dell'umanità che egli stesso dovrebbe redimere. Hors Satan è la storia di un Dio di carne e sangue, che ama con orrore, che salva con violenza, e che non potendo combattere la propria natura di uomo (o di peccatore o di diavolo) è costretto a conviverci senza nemmeno averne la consapevolezza.
Tutto comincia nel più classico dei modi, con un omicidio. A farne le spese, come dicevamo, il patrigno di Elle che, punito per le violenze che riservava regolarmente alla figlia, finisce giustiziato a colpi di fucile. La polizia brancola nel buio, nessuno sospetta né della figliastra né del misterioso individuo che, giunto in città, s'accampa all'aperto vivendo di elemosine e carità, e così la vita dei due prosegue come se niente fosse. Il vagabondo ha però uno spiccato senso del divino: ciondola per tutto il giorno lungo i crinali costieri del villaggio che lo ospita, si inginocchia per invocare il Signore, porta conforto al capezzale dei malati e presto libera gli indemoniati dalle diaboliche creature che li rendono folli. Elle lo segue come un'ombra, e presto tra i due nasce un'amicizia intensa e indefinibile, che li unisce nella preghiera, che rende la ragazza fedele discepola del suo salvatore. Persino quando uno zelante guardacaccia, invaghitosi della giovane, tenta di insinuarsi nel loro rapporto, l'altrimenti tranquillo viandante, percepito il pericolo, non esita a bastonare “il rivale” fin quasi ad ucciderlo. Eppure la relazione che li lega ha tutte le caratteristiche di un amore contemplativo e platonico, tanto che quando Elle si offre più volte all'amico, egli la respinge preferendo l'orazione e la preghiera ai piaceri del corpo.
Con Hors Satan, Dumont raggiunge la vetta della sua ambizione cinematografica, il limbo ove le suggestioni personali, le ossessioni e le idiosincrasie tipiche di un auteur (nel senso più “cahiers du cinéma” del termine) si incontrano e scontrano con il suo retroterra da insegnante di filosofia. La sua ultima e chiacchierata pellicola non è in fin dei conti che il proseguimento di un'operazione più complessa e stratificata, dove le immagini, rimandando costantemente a qualcosa d'altro, finiscono per rivelarsi frammenti cangianti di un'unicità brumosa ed evanescente. Ciò che spicca in Dumont, o perlomeno ciò che spicca nelle sue opere principali, è infatti sempre la figura di un Cristo redentore, un'ossessione che, pur declinandosi in diverse sfumature, irrompe con raffinata prepotenza nel campo visivo dello spettatore. Come non associare a Gesù la figura del giovane Kader, lo sprovveduto protagonista de L'età inquieta (il cui titolo originale, guarda caso, è proprio La vie de Jésus) che si sacrifica per portare la tolleranza laddove cresce soltanto l'odio? E come non definire cristico il Pharaon De Winter de L'umanità, che addirittura, in una delle scene più delicate e famose della pellicola, inebriandosi col sapor di una rosa, galleggia nell'aria in mistica levitazione? E infine, il provinciale André di Flandres, film così immenso da essere totale, così perentorio da trasformare la violenza in purezza e l'orrore in profondità. André, che osserva senza mai intervenire, tranne laddove le circostanze lo impongono, André che domanda senza chiedere, che riflette senza (poter) pensare. Il primo è l'azione, il secondo il perdono, il terzo la contemplazione. Il vagabondo di Hors Satan è un Cristo che ha abbandonato la rarefazione dello spirito per indossare la pelle dell'uomo, e che rinunciando alla sua natura mistica è costretto a scendere a patti con il Male che nel mondo prolifera. Agendo secondo le regole dell'uomo, utilizzando quelle stesse regole per sostenere e diffondere il suo messaggio.
Dumont confeziona, con spiccato senso del paradosso, il suo film più solare; l'immensità del paesaggio fiammingo lascia il posto a un panorama marittimo, fatto di spiagge sassose e da un saliscendi di collinette ingiallite, mentre il grigiore acquoso delle nuvole scivola lentamente nell'azzurro di un cielo terso. È però sempre il silenzio a dominare su questa bellezza primaverile, quel silenzio greve ma ieratico che si respira nell'aria salmastra e che accompagna le lunghe, meditative peregrinazioni dei due protagonisti, che si insinua nelle loro suppliche, che accarezza quei volti così autentici come non se ne vedevano dai tempi del neorealismo. Quello di Dumont è un cinema minimale, fatto di gesti piuttosto che di storie, di uomini e non di personaggi, e dove lo splendore di uno sguardo si fa leggero come il vento, la purezza di un ammiccamento sostituisce il fardello di tante parole inutili. È sempre la ricerca dell'assoluto a dominare la sua mano, questa volontà spasmodica e totale di cogliere il senso cosmogonico del tutto, l'oscura ontologia del creato, inesprimibile verbalmente, irriferibile narrativamente.
Alla fine di questa vicenda di colpa e pentimento, di violenza e salvezza, ciò che resta è soltanto un'invocazione, dolorosa e disperata, ma quantomeno necessaria per tentare di cogliere l'essenza sottile di Dio, di separare la luce dalle tenebre, il bene dal male, la morte dell'anima dalla sua redenzione. Hors Satan. Fuori Satana. Dove il divino lasci spazio al diabolico e l'infernale si mescoli al trascendente, la risposta non la può dare nessuno. Al di fuori di Dio, (al di) fuori (di) Satana.
Marco Marchetti