Quentin-genio, che si rinnova fedele alle sue passioni cinefile, o Quentin-flop, che in esse galleggia compiaciuto lasciando affondare il proprio film nell'inconcludenza? Il pulp-debate è ferventissimo in questi giorni dopo l'uscita di C'era una volta... a Hollywood. In particolare, dopo la pubblicazione della mia recensione critica qui linkata, ho incassato gli affettuosi rimbrotti di Cristiana-Tutto Quell'Astori, che il suo plauso al film l'ha esposto nel servizio su Nocturno ora in edicola. Ma fra i sostenitori del Quentin si schierano anche due colonne della narrativa pulp italica come Andrea Carlo Cappi (ora anche coautore dell'antologia S.O.S.) e Stefano-Gunn-Di Marino. Mentre sul fronte dei delusi incasso l'appoggio di Giovanni De Matteo (anche lui coautore della S.O.S.).
Per dare il quadro della lacerante divisione, quando ho incassato anche i rimproveri dell'amico Andrea Peviani (collaboratore del FantaRock), ho pensato di affidare a lui l'altra parte, ossia una controrecensione che evidenziasse meglio il buono del new Quentin, in modo da lasciare a voi lettori l'ardua sentenza se questa sarà la nona porta verso la gloria di Tarantino o il suo primo passo davvero falso.
La parola alla difesa.
Più ci penso, più rimango allibito dal fatto che Mario nella sua recensione abbia, anche se a malincuore, stroncato C’era una volta a Hollywood. Per tutti noi che siamo fin da giovanissimi appassionati di musica, gli anni ‘60 sono il punto di partenza di una mitologia fortissima e che con il tempo e la progressiva storicizzazione si è sempre più rafforzata. E oggi arriva quest’opera di Tarantino che in un colpo solo celebra il passato e dice qualcosa di importante sul presente e sul futuro.
Rispetto a quando negli anni ‘90 andavamo a vedere i primi film di Tarantino, oggi ci sono alcune differenze fondamentali, che sono implicite ma determinano fortemente il suo ruolo di regista e il nostro di spettatori. La prima è la distanza temporale: il 1969 oggi è lontano 50 anni esatti, mentre quando i personaggi delle Iene ascoltavano K-Billy e i suoi Super Sounds of the ‘70s, quelle canzoni erano solo di una ventina d’anni prima. Inoltre, la stilizzazione cinematografica e musicale inventata da Tarantino e praticata artisticamente in questi 25 anni, è entrata in profondità anche nel mainstream e nel costume di massa.
Queste condizioni di partenza così differenti le ho sentite, forse più fortemente di Mario e di molti altri ultracinefili, fin dai primi minuti del film (anche perché negli ultimi 10 anni ho visto pochissimi film e in particolare ho mancato gli ultimi 3 del nostro Quentin). Così sono entrato nel gioco senza troppe aspettative e l’ho subito trovato familiare ma nello stesso tempo nuovo. Soprattutto è stata formidabile l’idea creativa dei due personaggi (e strepitosa la chimica tra il regista e gli attori e tra gli attori stessi) per farci entrare così perfettamente in quel giorno preciso di 50 anni fa, dentro e fuori la svolta per Cielo Drive.
Stelle cadenti
L’attore in crisi e il suo amico stuntman sono con un piede dentro e con l’altro fuori da quel 1969 e da quel mondo che noi da sempre amiamo studiamo riviviamo con ogni forma artistica e strumento mediatico ci siano stati resi disponibili (e dall’avvento del web in poi non abbiamo più avuto limite alcuno). Il loro straniamento nell’affrontare i cambiamenti che hanno travolto la società americana, il cinema e le loro vite li pone in sintonia perfetta con il nostro sguardo che è così irresistibilmente attratto da quell’epoca magica mentre, in modo molto simile al loro, ci troviamo a disagio nel vivere un presente e un futuro in cui tutti quei sogni sono stati traditi.
Come alcuni hanno notato, al contrario di tutti i moltissimi film degli ultimi 30/40 anni ambientati negli anni ‘60, qui è totalmente assente l’impressione di assistere a un “film in costume” – siamo veramente prima in quel giorno di febbraio e poi in quell’altro di agosto del 1969. Questa naturalezza è esaltata da ogni singolo particolare dell’ambientazione visiva e sonora (così forte in certi momenti da diventare quasi tridimensionale e olfattiva...) e abbassa l’ansia da prestazione che sempre accompagna i film di Tarantino.
Questa volta nell’incastro dei personaggi e dei loro destini il centro siamo proprio noi che guardiamo e ci immergiamo completamente in quella Los Angeles vintage, in quell’America che non c’è più, con le tv e le radio sempre accese, con quelle insegne luminose che si accendono una dopo l’altra. Siamo noi, con i nostri 50 anni di memoria mediatica sedimentata sopra quella della vita reale, che sappiamo benissimo come sono andati a finire gli hippie, Hollywood, il rock’n’roll, l’America, il mondo e le nostre vite.
Hollywood ending
Ed è proprio il finale così lapidariamente criticato da Mario a non essere raccontabile (più di qualsiasi congegno narrativo tra i tanti elaborati da Tarantino) tanto è potente e significativo. Come il grande cinema quando è grande, fa schiattare dal ridere, rabbrividire e commuovere nel giro di pochi minuti e ti fa andare fuori con l’idea che domani anche questo mondo balordo potrebbe cambiare. E con la voglia di rivederlo al più presto, proprio come dopo Pulp Fiction. Azzardo una previsione: quando avremo avuto anche il decimo film di Tarantino e lui come promesso si ritirerà per sempre, di tutte le Tarantinate che saranno cristallizzate nella storia del cinema, questa si collocherà ai vertici.
In mezzo a queste 2 ore e 40 di Grande Bellezza, infine, ci tengo a fare due menzioni speciali. Il terzo personaggio della storia, quello di Sharon Tate, sublimazione definitiva dell’innocenza degli anni ‘60 e riabilitazione di una figura da sempre relegata al ruolo di vittima e icona di bellezza e che con questo film acquista un’anima grande come tutto il sogno Sixties.
...E ancora la musica
E poi, ovviamente, la musica. Incredibile come Tarantino riesca a far suonare eccitante e mitico questo 1969 senza NESSUNO dei grandi dischi che lo segnarono e che oggi tutti ricordiamo: niente Beatles, Zeppelin, CS&N, Who, Janis, Doors, Dylan, Creedence, Velvet, Hendrix, Band, Stooges… Tarantino non ha bisogno di pezzi storici, perché la Storia la fa con il groove dei rumori di fondo, scegliendo in mezzo alle migliaia di canzoni in rotazione nelle centinaia di radio locali sparse in tutti gli States. Come sempre “uno di noi”, immerso nella sottocultura dei Nuggets e dei bellissimi perdenti (uno su tutti il Mitch Ryder qui a destra, già omaggiato da Bruce Springsteen fin dagli anni ’70, quando infilò proprio Jenny Take A Ride nel suo leggendario Detroit Medley). Quasi stona lì in mezzo l’unico vero hit, la Mrs. Robinson di Simon & Garfunkel, probabilmente infilata con la funzione di evocare la nuova Hollywood de Il Laureato; mentre l’unica Grande Band che DOVEVA esserci sono i Rolling Stones, con un pezzo del 1966 che però è la chiave di tutto: baby baby baby you’re Out of time… E fuori dal tempo non sono solo Leonardo Di Caprio/Rick Dalton e Brad Pitt/Cliff Booth, ma tutti noi con le nostre collezioni di dischi e di film.
Andrea Peviani