John Wick era un letale killer su commissione della mala newyorkese. Ad un certo punto decide di ritirarsi per stare con l’amata Helen, ma una malattia senza speranza gliela porta via. Dopo il funerale riceve l’ultimo dono di lei: un cagnolino che pare uscito dallo spot della carta igienica, di quelli che fanno uggiolare alle ragazze “macheccarìinoo” colla boccuccia a cuore. John è una macchina per uccidere di poche parole, ma ci si affeziona subito. E voi dite: è interpretato da Modugno e ora canta “Piange il telefono”.
Invece no: è
Keanu Reeves e, per fortuna, questo proemio del suo ritorno all’action movie ci viene perlomeno servito in non più d’una smilza decina di minuti. Poi il passo cambia: tre giovani mafiosi russi adocchiano la sua Mustang d’epoca e il loro capo ne chiede il prezzo. John è affezionato anche a quella e non cede. Loro lo sorprenderanno in casa di notte, lo conciano per le feste e gliela rubano. Ma, quel che è peggio, gli spiattellano pure la bestiola con una mazzata. John-Keanu è un coriaceo e in breve si tira su, ma si sa come sanguina il cuore di un killer a pagamento per un cagnolino. Sempre solo e laconico come un Clint Eastwood, spacca il pavimento sotto cui aveva murato la santabarbara che si proponeva di mai più toccare e si prepara a spaccare anche i cattivi.
Fine del prologo: inizia il film in cui, come forse avevate intuito, non ci sarà mercé per nessuno. Film il cui prosieguo ci fa chiedere come abbiano potuto tre balordi viziati sorprendere un ninja come lui, ma in verità sono molte le cose che non si capiscono: perché il poliziotto di quartiere, sentendo i rumori della sua prima strage, gli suoni, ne veda le vittime a terra e ciononostante volti i tacchi augurandogli buona serata; come sia che (più avanti) John trovi alloggio in un hotel che sembra una specie di porto franco della mala cittadina, accolto da un azzimatissimo concierge da film di Bond (lato mondano) che previene ogni sua esigenza con tatto felpato. Però, forse perché la loro surrealtà induce al sorriso, alla fine queste sono le situazioni più gustose del film, le più vicine a quell’affettuosa irrisione tarantiniana dei cliché del genere (cui rimandano anche le frequenti didascalie sovra impresse alle immagini del film).
Ma non confondiamo i fanti coi santi: lo svolgimento della pellicola è uno slalom fra i cliché più inveterati dell’action americano: il padre boss Viggo, un tempo committente degli omicidi di John, spiega al figlio con paterni cazzottoni quanto l’imbelle abbia pestato i piedi all’uomo sbagliato, uno con una tempra che il degenere non sfiorerà mai neanche in sogno. E che, doppiata la boa del contesto giustificativo della giusta vendetta, si esprime in tutta la sua “arte”, portando il film nel vivo della sua essenza: quella di un videogame sparatutto in cui l’invincibile stende pile di armigeri del boss, di colleghi irretiti dalla taglia che questi ha messo su di lui, a colpi di “gun fu”. Così ha definito il mix di sparatorie e arti marziali il regista
Chad Stahelski, non a caso ex stunt man e controfigura dello stesso Reeves in
Matrix.
Che però rimane lontano anni luce: qui siamo in un tamarrissimo
Sin City senza il fascino retro del b/n fumettistico di
Frank Miller, o in un clone di
Desperado/Machete dell’ormai chiaramente sopravvalutato
Robert-
Mariachi-
Rodriguez. Un genere, l’action pulp iperrealista con strizzatine d’occhio ironiche (o nei casi più ambiziosi cinefile), che ormai è diventato maniera più di quanto non lo fosse già nel dna e quindi smuove al sorriso con sempre maggior fatica. E cui, come qui, è sempre più difficile trovare ancore di giustificazione concettuale – pur coll’occhio benevolo del trashista – che non siano la serata fra amici testosteronici a base di birre e rutti liberi.
Diciamocelo: senza il cast stellare – accanto a
Keanu Reeves,
Willem Dafoe e
John Leguizamo –
John Wick sarebbe stato uno straight to video alla
Steven Seagal di cui mai ci saremmo occupati. E di qui la domanda più stimolante: ma cosa spinge due star tanto diverse ma comunque affermate come Reeves e Dafoe a lanciarsi in un’operazione simile (che comunque è professionalmente girata e prodotta coi giusti mezzi)? Bisogno di qualche soldo? Il film da regista del Keanu (
Man of Thai Chi) è andato male? O era l’ansia d’interpretare ancora un action adrenalinico, di quelli che gli sono valsi la sua stella sulla walk of fame di Los Angeles, prima che l’età (il divo canadese ha appena doppiato i 50) gliene riduca le chance? E, per Dafoe, bisogno di bilanciare le performance cult per
von Trier e
Abel Ferrara con qualche redditizia puntata mainstream?
Non abbiamo la risposta, ma solo una certezza: non siamo ansiosi dei prossimi passi del regista, che in comune col fine
giallo psicologico della Highsmith citato nel titolo dell’articolo ha solo… il cane all’origine della trama, appunto.
Auguriamo a Keanu di ritrovare la strada di quel fantastico anche popolare (
Johnny Mnemonic prima di
Matrix,
Constantine, di cui siamo fra i pochi sostenitori,
A Scanner Darkly etc.), anche distaccandosi un po’ dalle arti marziali. E a Willem di tornare al più presto a sostenere i deliri del Danese, ma anche alle sbavature (quanto più personali)! dell’amico Abel.
In John Wick purtroppo non c’è niente da scoprire: anche nei momenti più dinamici si può controllare il telefonino senza rischiare di perdere un colpo di scena.
Mario G