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In breve, capolavoro.
Un'ora e mezza di pura suspence con minimo impiego di mezzi produttivi e nullo spreco d'effettacci: non un inseguimento con auto rovesciate in fiamme, non una sparatoria né una scazzottata, neppure una testa mozzata con geyser di sangue.
Ma è una sceneggiatura di ferro il vero punto di forza che trasforma ogni assenza, da potenziale punto debole (rischio di lentezza, staticità, ripetitività, teatralità) in fattore di originalità e di unicità di un film che invece riesce a non lasciarti mai respiro e a non perdere mai il ritmo.
Allora, un serpente che striscia sul povero prigioniero ti inchioda più di mille duelli alla katana con piroette volanti. Un rombo lontano proveniente dall'esterno fa più rumore di mille esplosioni in scena. Una minaccia detta al cellulare dal sequestratore iracheno terrorizza più di mille serial killer sadici.Il giovane regista spagnolo Rodrigo Cortés riesce così ad ottenere il massimo dal minimo: il massimo dell'angoscia da una fotografia buia e sgranata, quasi tutta incentrata (come potete vedere dagli still che vi proponiamo ai lati dell'articolo) su primi piani strettissimi, soffocanti sul viso di Reynolds, che quando è anche mossa raggiunge deformazioni baconiane del volto sconvolto del protagonista. Il massimo dell'espressionismo da un set luci ridotto (come vedete) all'arancio dell'accendino, all'azzurro del display del telefonino, al verde del tubo fluorescente, che dan vita ad allucinati quadri monocromi da Bava/Argento d'antan.
Tutto il resto è evocato dai dialoghi al cellulare: non un volto dei sequestratori o dei connazionali americani in lotta contro il tempo per salvare l'ostaggio, non un'inquadratura sul fuori dalla cassa: se si parla di 'cinema in soggettiva', qui siamo alla sua apoteosi. E nemmeno una parola di troppo: la limitata ricarica telefonica non lo consente.
Eppure, i concitati dialoghi di Buried riescono a trasmetterci, oltre all'incubo del sepolto vivo, anche il grottesco del nostro quotidiano, ancor più palesemente demenziale quando l'emergenza mette in gioco la vita: educate segreterie telefoniche, odiose musichette d'attesa, pregorestinlinea, nomecognomenumeroditesserasanitaria, pregodadovechiama e tutte le follie pseudoformali da cui è torturato il nostro presente telematico e beckettiano.
E, ancora, dalla famosa scena della ragazza viva nella bara liberata a picconate in Paura nella Città dei Morti Viventi di Fulci (di cui vi riportiamo un'inquadratura qui a destra), fino alla sua consapevole citazione tarantiniana in Kill Bill 2 - con Uma Thurman interrata dal bieco Michael Madsen (sotto a sinistra il set in sezione) - in seguito autocitata ed ampiata nel lungo episodio Grave Digger di CSI (diretto appunto dall'onnivoro Quentin), sicuramente il più vicino al soggetto di Cortés.
In parte ci sarebbe da citare anche il breve Haze di (e con) Shinya Tsykamoto, ma lì si tratta di cunicolo e non di bara, il protagonista striscia e non è immobile.{mosimage}
Nessuno di questi film o telefilm però era mai stato così radicale da eliminare totalmente il mondo esterno dalla sceneggiatura. Un giovane spagnolo ha osato. E ha vinto la sfida, insomma ha inventato qualcosa di nuovo; non consentendo al mélo (che peraltro verso la fine un pochino s'insinua nella cassa) di prendere il sopravvento sul suo agghiacciante impianto drammaturgico fino al non meno agghiacciante (e strepitoso) finale.
E brucia davvero pensare che nessuno in Italia (dove il film esce nelle sale dal 15 ottobre per Moviemax) abbia saputo concepire e osare un'idea tanto semplice, economica e vincente, a parte lagnarci che "certo cinema da noi non si può fare per mancanza di fondi". Diciamoci la verità, non si può fare perché non si hanno le palle di negarsi un Silviorlando-Claudiobisio-Diegoabatantuono che tira fuori la battuta vernacolare da cabarettista.
Dicono che il sommo Hitch sarebbe stato fiero di questo film. Forse per una volta la frase promozionale suona azzeccata. Trovatelo (il film, non l'ostaggio!) e... buone visioni.
Mario G