“In questa vita il difficile non è morire.
È molto più difficile vivere”.
(dal testo di Mercuzio non vuole morire)
Già, proprio una psichedelica baraonda. La definizione è mia, quando l’ho coniata alla fine dello spettacolo al Teatro Menotti è piaciuta, quindi la utilizzo “ufficialmente” per definire Mercuzio Non Vuole Morire, ultima fatica registica di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza, la pluripremiata realtà teatrale formata dai detenuti del carcere di Volterra (dove questo Mercuzio ha debuttato nell’estate 2012, coinvolgendo l’intera città in un megaevento di piazza), pioniera dell’oggi fiorentissimo settore del “teatro dietro le sbarre”, che conta oltre 100 compagnie attive negli istituti penitenziari lungo la Penisola.
Peraltro, va detto che il precedente lavoro di Punzo-Fortezza si chiamava mica per caso Hamlice, crasi di Amleto shakespeariano e Alice carroliana (noi l’abbiamo visto rappresentato nel già surreale scenario dell’Hangar Bicocca) e questo Mercuzio non vuole morire mi pare che ne sia per molti versi un’ideale continuazione.
Il personaggio “minore” viene dunque elevato da Punzo a protagonista di una surreale “ribellione poetica” (un po’ come nel Rosencrantz e Guildenstern sono morti, piéce e poi film di Tom Stoppard), che passa attraverso citazioni da Otello e Cyrano, duelli al fioretto col pubblico – chiamato a sventolare mani sporche di sangue, tutti Capuleti – pagliacci circensi, bambine ballerine e angeli sospesi.
Uno stordente hellzapoppin privo d’alcun baricentro narrativo e celebrazione della poesia e dell’arte come uniche vie di fuga dalle prigioni, dai destini segnati che rinchiudono ciascuno di noi.
Ne risulta un sontuoso “fantasy” barocco, che piacerebbe tanto al Terry Gilliam di Parnassus, per il rifiuto programmatico (è lo stesso regista-protagonista a confermarcelo in una breve chiacchierata fuori scena) di offrire allo spettatore alcun appiglio logico di senso cui ancorare il libero fluire di un mondo onirico felliniano: veramente un teatrino di Mr Parnassus uscito dalla pellicola e approdato alle tavole di un teatro vero. E musicato dal vivo in scena da Andrea Salvadori, autore delle composizioni originali brechtiane che l’autore strimpella come un angioletto al piano, alternandosi con brani di Prokofiev e Purcell.
Al centro di questa poetica baraonda, lui: Armando Punzo dei miracoli, probabilmente l’unico regista in Italia oggi a potersi permettere oltre cinquanta persone in scena (e sicuramente l’unico ad aspirare al riconoscimento di teatro stabile per una compagnia in carcere). Fin troppo protagonista rispetto ai suoi attori-detenuti, un po’ troppo declamante al microfono, anche frasi in realtà molto poetiche, come quella posta in apertura (e citata a memoria, ci si perdoni l’eventuale inesattezza testuale). O come quella – che il regista sussurra all’inizio – “se solo lui (cioè Shakespeare, NdR) avesse dato a me le sue parole”, che dà voce al tormento fatale di Mercuzio e insieme al fastidio dello stesso Punzo per la tragedia Romeo e Giulietta, che lui considera un bamboleggiamento adolescenziale assolutamente poco interessante da rappresentare nella sua forma filologica.
Peccato che nella psichedelica baraonda – ancorché assai microfonata, dicevo – molte frasi che isolate varrebbero la citazione vadano un po’ perse nell’ascolto. Forse anche proprio per la non-struttura ad accumulo onirico voluta dal regista, in cui personalmente mi sono sentito un po’ perso a galleggiare senza capire in che direzione. Com’era nello spirito dell’opera, ho poi avuto conferma.
Anche se forse – pur avendolo capito – questo non diventerà il “mio genere di teatro”.
Mario G