Apre le danze alle 21 l’occitana Charlotte Adigéry, suadente voce afro beat, accompagnata da un solo musicista, il fido Bolis Pupu dedito ad armeggiare col campionatore da cui trae le robotiche basi su cui la cantante distende le sue melodie dance, discendenti dalla Laurie Anderson di Mr Heartbreak, dai Tom Tom Club più minimal dance e dalle Zap Mama. Affascinanti geometrie di controluce in b/n sullo schermo alle sue spalle animano lo scarno set con eleganza, lei è simpatica, purtroppo penalizzata da una prevalenza dei toni bassi nel bilanciamento dei suoni (la maledizione dei supporter) e alla lunga anche un po’ dalla monotonia delle basi full electro quasi kraftwerkiane.
Ma tanto lunga non è, perché Charlotte lascia il palco dopo solo mezz’ora ai tecnici dell’headliner, che sistemano il palco per il set di Neneh, attivano i fumogeni davanti ai proiettori blu puntati verso di noi e quindi ci lasciano affumicare per un’altra mezz'oretta al suono del reggae-dub-hip hop diffuso con generosità dal mixer.
La storica regina mulatta del trip hop – oscillante presenza sulle scene musicali dal lontano 1981 (allora coi Rip Rig + Panic) ma capace di sparire per lunghi periodi – entra in scena alle 22 precise, insieme alla sua assai particolare tour band di cinque elementi: due stagionati manipolatori di campionatori e laptop in secondo piano, tre giovani polistrumentisti sul proscenio accanto alla cantante, che si alternano all’arpa, al basso elettrico e alle percussioni/vibrafono, spesso cambiando posizione per dedicarsi a manipolare altre tastiere o percussion set; nell'insieme, un amalgama sonoro abbastanza vario e cangiante, pur nella dominante “bass culture” in cui il baricentro sonoro poggia appunto sui bassi phat della grande stagione dei Massive Attack e sulle percussioni dub-afro-world-hop.
È il mélange sonoro ideale per rappresentare dal vivo l’ultimo album della figlia adottiva di Don Cherry: Broken Politics (pubblicato lo scorso ottobre su Smalltown Supersound, copertina qui a destra) e prodotto insieme al vecchio amico Robert "3D" Del Naja dei suddetti Massive, a Kieran-Four Tet-Hebden e al pianista jazz Professor Karl Berger in veste di vibrafonista. Un album di cui s’è letto molto bene in giro, che quindi ormai non necessita di ulteriori presentazioni da parte nostra (online basta un link, no?) e su cui il concerto si basa in maniera prevalente, come dichiarato programmaticamente dall’artista stessa all’inizio, lasciando spazio solo per un paio di ripescaggi dal pur ricco passato dell’ondivaga cantante.
Personalmente, trovo che manchi un po’ la presenza di uno strumento – come ad esempio un sax o una tromba – in grado d’improvvisare riscaldando i succosi groove della folta sezione ritmica, con maggior ricchezza ed estensione di quanto consentito al vibrafono o ai synth qui dominanti. Ma, si sa, il sottoscritto propende sicuramente più verso gli scenari astratti e dilatati del jazz che verso i martellamenti dell’hip hop stasera protagonisti. E al Magnolia non c’è nessuno dei Cherry Thing con cui solo qualche anno fa Neneh rileggeva in chiave free/blues Stooges, Suicide, papà Don e zio Ornette, del quale invece ora rimane solo un caliente campionamento (da Growing Up del ’69) nell’hip hop di strada (con sirene della polizia) Natural Skin Deep.
Fortunatamente, Neneh sul palco è persona cordiale e comunicativa, spiega le canzoni (come Black Monday, “ispirata a una manifestazione di piazza antirazzismo/sessismo in Olanda”) e si rassegna di buon grado a rinunciare ai vistosi orecchini afro che le cadono continuamente, scherzando “we’re here for the music, not for the glamour”. E il suo set, anche se non generosissimo (un’ora e dieci circa) non risulta mai freddo e meccanico, nonostante il predominio delle architetture sonore campionate.
Non ha attirato folle oceaniche, il concerto di Neneh (200/300 circa, ho stimato io a occhio), ma nei tempi delle sue riflessive assenze dalla scena musicale ci sono partiti che sono nati, andati al governo e già ridotti al lumicino: la gente dimentica in fretta, figuriamoci i cantanti. Anche se Broken Politics sfoggia un policromo compendio di moderna black electronic dance, hip e trip hop, R’n’B melodico e spoken word, l’atmosfera dominante (e l’età media dei presenti) ispira tanto una punta di celebrazione già nostalgica della scena di Bristol dei ’90.
Solo una decina di minuti di bis, che ci lasciano purtroppo la sete dei classici Woman e Seven Seconds. Comunque bella serata: avercene di celebrazioni così…!
Mario G
P.S.: le foto ai lati dell'articolo (a parte la copertina dell'album che è di Wolfgang Tillmans) sono state scattate da Mario durante la serata al Magnolia del 28/02/2019 con Smartphone.