City of Lies - L'ora della verità (inutile sottotitolo della versione italiana) ricostruisce le indagini sulla morte violenta dei rapper Tupac Shakur ma soprattutto di The Notorious B.I.G., al secolo Christopher Wallace (che a seguito della rivalità fra i due era anche stato sospettato per l’omicidio dello stesso Tupac del settembre 1996), il quale fu ucciso il 9 marzo 1997 con quattro colpi al torace, sparatigli da un’auto scura che aveva affiancato la sua ad un semaforo.
Come non di rado accade proprio nei casi di personaggi sotto i riflettori (entrambi i rapper hanno venduto milioni di dischi e sono oggi considerati monumenti della black culture contemporanea), le indagini sono state tutt’altro che semplici: complicate dal clima incendiario scatenato a Los Angeles dal famigerato pestaggio del nero Rodney King da parte di poliziotti bianchi, dall’allora sbandierata rivalità non solo fra i due rapper ma fra l’intera scena dell’hip hop East Coast (L.A.) contrapposta a quella della West Coast (cioè N.Y., capeggiata appunto dal 2Pac) e dalle non meno conclamate contiguità con le gang criminali vere e proprie degli stessi protagonisti del gangsta rap, i quali non solo inserivano nei propri testi versi violenti e discussi, ma vivevano – da buoni americani, potremmo dire noi – sempre circondati da armi da fuoco oltre che da fiumi di crack, in pratica quelle indagini non portarono mai alla cattura dell’assassino del corpulento Wallace-B.I.G.
L’introduzione un po’ didascalica (dell'articolo, beninteso, non del film) è necessaria per chi – come del resto il sottoscritto – non fosse esperto appunto delle turbolente vicende della scena gangsta rap californiana, che il film racconta dettagliatamente e con ritmo serrato, rischiando di lasciarsi dietro chi si perde fra i nomi, i volti e i bellicosi tatuaggi dei muscolosissimi afroamericani che circondano i rapper superstar in veste di ambigue guardie del corpo; ambigue in quanto, scopriamo, contemporaneamente agenti della polizia di L.A. ma anche anelli di congiunzione con le gang dello spaccio della droga le cui gesta delittuose tanta parte hanno nella vita e nell’opera dei miliardari rimatori figli del ghetto (e, nel caso di Tupac, delle Pantere Nere).
La storia (reale, oltre che basata sul romanzo LAbyrinth di Randall Sullivan, al momento inedito da noi) viene ricostruita dal regista Brad Furman nella forma dell’indagine giornalistica a ritroso nel tempo condotta dall’intrepido giornalista Jack Jackson (Forest Whitaker) con l’aiuto dell’ex detective della polizia di L.A. Russell Poole (Johnny Depp), dimessosi a due settimane dalla pensione dopo vent’anni d’indagini frustranti, metodicamente ostacolate dal suo stesso Distretto d’appartenenza per tema che la sua ostinazione facesse emergere il coinvolgimento di alcuni colleghi sbirri nei delitti e nelle connesse trame criminose nell’ambito del riciclaggio di droga sequestrata, che ritornava “misteriosamente” in mano agli stessi spacciatori (oltre che nelle capienti narici dei rapper), omicidi che quindi non erano affatto casuali sparatorie di strada così all’ordine del giorno in una città in cui si fa fuoco peggio che a Beirut, ma vere esecuzioni mafiose di “traditori” e così via, rigorosamente coperte con le menzogne del titolo.
Russell Poole è personaggio reale (come leggete QUI) e va detto che Depp ne offre un’interpretazione degna della sua fama: invecchiato, baffuto e panciuto, il divo oggi 55enne si è finalmente scrollato di dosso la chincaglieria e le mossette del pirata dei Caraibi (che lo hanno posseduto per un bel po’ trasformandolo in una stucchevole macchietta) e si mostra coraggiosamente non sexy, anzi paranoico e sconfitto, schiacciato da eventi drammatici e da un potere oscuro e minaccioso, ben supportato dal non meno ostinato giornalista Whitaker.
I due si muovono in una Los Angeles per nulla solare, ripresa nei toni sporchi e verdastri della fotografia di Monika Lenczewska, che forse intende visualizzare (com’è ormai un must a Hollywood) la polvere del tempo che i protagonisti vanno a rivangare, giacché ormai son passati circa vent’anni dai drammatici fatti e quindi gran parte del film si svolge in flashback; ma che sicuramente rende benissimo anche il clima per così dire umano e morale della storia. La quale, a onor del regista, sorprende positivamente per aver scartato non solo i colori ipersaturi da videoclip hip hop alla moda ma anche tutto il resto dei parafernalia del genere che uno s’aspetterebbe entrando a vedere un film come questo: le dita messe “a pistola” gridando yo nigga e insomma tutte le tamarrate gangsta rap alla All Eyez On Me, se così posso dire. Pensate che, benché la colonna sonora sia prevedibilmente irta di brani hip hop, il film non sembra affatto un “musical sulla scena di Compton”.
City of lies (dal 10 gennaio nelle sale del Belpaese distribuzione Notorious) è anzi… sì, coraggiosamente “antispettacolare”, il che – data appunto la materia – non è limite ma un merito non da poco: per questo temo che metterà a dura prova lo spettatore italiano che non si sia abbeverato approfonditamente della Storia del Rap, ma è una fatica che vale la pena di affrontare e rende onore al regista e ai suoi due mattatori.
Mario G