“But in the murderer, such a murderer as a poet will condescend to, there must be raging some great storm of passion
— jealousy, ambition, vengeance, hatred — which will create a hell within him; and into this hell we are to look.”
(Thomas de Quincey, Suspiria de Profundis)
Al Suspiria di Luca Guadagnino, nelle sale italiane dal 1 gennaio, Nocturno ha dedicato il dossier di dicembre (cover a lato): 40 pagine che si sommano a quelle del primo dossier (n. 18 del 2004) sull’intera filmografia argentiana e a quelle dell’ulteriore dossier sulla trilogia delle Tre Madri (n. 64 del 2007), realizzato per l’uscita dell’infelice La Terza Madre di mastro Dario (ahinoi in uno dei punti più bassi della sua filmografia).
Che si può ancora dire dell’attesissima operazione di ripensamento complessivo di un film come Suspiria, che segna una pietra miliare e una svolta senza ritorno nell’horror mondiale, tuttora omaggiata da registi che vanno dal j-horror di Evil Dead Trap 2 al Masks di Andrea Marshall, da Guillermo del Toro (Crimson Peak) a Gaspar Noè (Climax)? Solo che, dopo tante attese, annunciazioni, prese di posizione a priori pro o contro, finalmente ora si può parlare semplicemente del film in quanto tale: e che per una volta quelle attese non sono state deluse giacché quello che scorre sullo schermo al buio è a propria volta un capolavoro. Un’opera d’ampio respiro, originale rispetto al modello di riferimento quanto concettualmente ambiziosa, che presumibilmente verrà ricordata come una nuova pietra miliare del (troppo a lungo depresso) horror italiano, alla pari con il capolavoro argentiano di riferimento. Testa a testa con altri recenti capolavori internazionali sull’oscuro femminino demoniaco (con cui ha qualcosa in comune, horror o meno che li si voglia definire), quali Antichrist di von Trier e Neon Demon di Refn.
Nei confronti del Suspiria di Argento Guadagnino – che pure se ne dichiara fan dall’infanzia – s’è comportato con piena libertà, come un Miles Davis che interpreta in chiave jazzistica la Summertime di Gershwin: è meglio, è peggio? Ognuno può scegliere qual è la versione più di suo gusto, sempre consapevole che senza quei poco più di 2’ di ninna nanna dell’opera Porgy and Bess le successive 25.000 interpretazioni ad oggi registrate non sarebbero mai esistite.
E quali sono allora i punti chiave della Guadagnino version?
Il realismo:
nel film capostipite, a parte che Jessica Harper esce da un aeroporto e sale su un taxi, tutto il resto della vicenda si svolge in un’ambientazione fiabesco-onirica da Grimm al sangue, fuori dal tempo e da alcuna connotazione geografica precisa. Guadagnino cala il medesimo soggetto ben più profondamente nella Germania del ’77: ambienti, arredi ed abiti; ma, soprattutto, dagli schermi televisivi apprendiamo che – fuori dalla diabolica scuola di danza – infuria il terrorismo della R.A.F. e della Baader Meinhof (per cui s’è parlato anche di riferimenti registici a Fassbinder). È, questa, la componente che a me è parsa più “sovrastrutturale”, nel senso che – anche nel corso di una durata fluviale di 152’, un’ora più dell’originale! – è difficile approfondire appieno il rapporto dei drammatici fatti storici con la vicenda stregonesca che si svolge nel chiuso della Tanz Company. Il riferimento è solo al femminismo delle “streghe son tornate”? No, non può bastare, ci dev’essere qualcosa di più, ma questo al sottoscritto per ora sfugge (occorrerà una seconda visione).
Certo, c’è anche il ruolo estremamente ampliato dello psichiatra Klemperer (sempre la virtuosa Tilda Swinton en travesti masculin): poco più che una comparsa nel film di Argento, qui è quasi un coprotagonista che aveva in cura la prima delle ragazze scomparse (Chloë Grace Moretz), tramite il suo diario scopre i nomi delle Tre Madri e così diventa il vero motore delle indagini sulla scuola, animando anche la sottostoria della sparizione durante la 2° Guerra Mondiale della di lui moglie Anke, che gli riapparirà sotto le spoglie dell’oggi invecchiata Jessica Harper. Benché debba ammettere che non mi è facile contestualizzare tutta questa riflessione sulla storia della Germania nell’esplosione del femminino luciferino incistato nel tempio di Tersicore, questo è un blocco narrativo rilevante (e del tutto nuovo) del film di Guadagnino.
Ma il realismo (e il più ampio respiro narrativo) del regista ci consente anche di osservare “dietro le quinte” la vita quotidiana e le scelte collettive della stregonesca congrega della Tanz, oltre che alcuni ermetici flashback sull’infanzia oppressivamente religiosa di Susie in Ohio, dove il suo sogno della danza era una trasgressione morale severamente punita dalla famiglia. Oltre che di apprezzare dialoghi meno imbarazzanti e una recitazione più controllata rispetto alle bizze stizzose delle ragazze del film di Argento (notoriamente mai stato un attento direttore di attori), che come si sa le avrebbe volute bambine.
Nei sogni indotti dalle streghe – folgoranti e agghiaccianti trip surreali degni di un video di Matthew Barney o Floria Sigismondi – i suoi ricordi si mescolano a strazianti visioni d’incubo confondendoci su cosa sia realmente accaduto in passato alla futura ballerina e cosa in lei si stia aggrovigliando per malefica induzione stregonesca.
La danza:
a parte un paio di volteggi in tutù, la danza nel Suspiria originale era solo un pretesto per il dipanarsi dell’orrorifica trama. Guadagnino invece le dedica molto spazio: intanto ci spostiamo dalla danza classica a un più moderno teatro danza alla Pina Bausch, che consente al coreografo Damien Jalet di dare forma a una performance veramente intensa e ammaliante anche dal punto di vista puramente teatrale e visivo, che da sola varrebbe il prezzo del biglietto (nell’immagine a lato la messa in scena finale col pubblico e le ballerine col geniale costume di fili rossi). Ma che il regista, con autentico colpo di genio, riesce a connettere intimamente con le manovre occulte della congrega, poiché già durante le prime prove della protagonista la malìa della perfida Swinton/Blanc fa sì che ad ogni scatto della prescelta Dakota Johnson/Susie corrisponda una contorsione imposta al corpo prigioniero della ribelle Olga (Elena Fokina), che finisce (SPOILER) ridotta a un grumo contorto d’ossa spezzate.
Molto più legato al tema del classico killer col guanto nero del primo omcidio del vecchio Suspiria, che in fondo rimandava ai precedenti gialli del Maestro, ma in un film in cui non c'era più alcun assassino umano da scoprire. (FINE SPOILER) Oggi il pugnale è rimpiazzato dal minaccioso uncino brandito dalle streghe ghignanti che vedete qui a destra.
In generale Guadagnino ci mostra molto più la fisicità delle sue ballerine e del loro lavoro quotidiano: scaldamuscoli, scarpette e piedi nudi, esercizi di riscaldamento, piegamenti sulle giunture e faticose serie di salti. Ma questa estasi di danza che è insieme trance e violenza è un dualismo molto fecondo che sarebbe bello veder meglio sviluppato; lo dico inevitabilmente perché (si parva licet) anch’io ho cercato di sondarlo col mio (tuttora inedito) Buio In Scena, che infatti proprio dal Masks di Marschall aveva tratto qualche ispirazione.
La nuova Mater:
il realismo di Guadagnino ci consente poi di capire meglio anche il ruolo di Susie/Dakota nel piano delle madri. Meglio di come l’avessi capito io finora, almeno: la protagonista non è affatto una vittima designata dei loro sortilegi, bensì la prescelta lungamente attesa e cercata (attraverso gli errori con le precedenti ballerine tragicamente “scartate”). L’eletta ad eternare il viscerale matriarcato ancestrale. “Prima di dio, prima del diavolo”.
I colori:
totalmente ribaltata la paletta cromatica del film. Dove Argento aveva scioccato il mondo coi suoi iperrealistici quadri monocromi pop-psichedelici in rossi-blu-verdi ultrasaturi (e di poi ultracopiati), la fotografia di Sayombhu Mukdeeprom spegne e ingrigisce l’intera tavolozza, consentendoci di apprezzare le spente nuance degli arredi moderno-vintage degli anni ’70, i poco sciccosi abbigliamenti delle ragazze d’allora (i primi punk sono nelle strade), anzi di quasi tutti i personaggi, facendo così risaltare per contrasto come frustate pittoriche il rosso dei fili dei costumi sul bianco degli incarnati sul nero di sfondo della già accennata performance di danza. Il rosso saturo ematico esploderà praticamente solo nel finale sabba di un passaggio di consegna nel segno del sangue, come si conviene all’oscura vicenda di femmine.
La musica:
come pensare un film di Argento senza le musiche dei Goblin? Come un western di Leone senza Morricone. Una bestemmia in chiesa. Thom Yorke, voluto dal regista italiano per la nuova colonna sonora, riesce nel miracolo: senza timore reverenziale nei confronti di uno score epocale, evita di netto la tentazione della strizzata d’occhio prog, della citazione o del campionamento furbetto e confeziona una sontuosa colonna sonora (edita a fine 2018 su doppio cd da XL, di cui vedete la copertina qui a lato) distillando i migliori Radiohead melodici (il leit motiv Suspirium, Open Again, Unmade) con voce malinconica e pianoforte in un ordito in cui prevale largamente un’elettronica giustamente kraut (era quella l’epoca), con baleni di abbagliante psichedelia rivisitata digitalmente (Has Ended), Bowie berlinese (compare in poster nella stanza di una delle ragazze) e coeve liquidità ambient alla Eno, in cui ben si fonde anche qualche momento orchestrale e corale chiesastico, necessario per le atmosfere più cupe della trama.
“Ma è Odissea nello spazio?” è la domanda di mia moglie mentre vanno le dissonanze d’archi di Volk (brano eponimo della coreografia messa in scena dalla Blanc nel film): non peregrina, visto che il brano successivo s’intitola The Universe is indifferent e in A Choir of One ritroviamo proprio il coro straniante alla Ligeti usato da Kubrick. Non è certo il nuovo album di canzoni dei Radiohead né tantomeno un disco “facile”, tranne che per pochi brani, ma – come il film che accompagna – ha il respiro ampio e possente del primo grande album “fantarock” dell’annata.
Dopo gli exploit di Sorrentino (Loro) e Garrone (Dogman), col Suspiria di Guadagnino e Sollima al timone del Soldado (sequel del Sicario di Villeneuve), sembra che di colpo il cinema italiano abbia ritrovato un respiro internazionale che si temeva perso per sempre.
Da vedere assolutamente.
Mario G