“Tyger! Tyger! Burning bright
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?”
(William Blake)
C’è un racconto di Bradbury (La falce, del 1943, lo trovate sull'antologia Paese d’Ottobre) in cui un contadino eredita misteriosamente un campo, ma falciandolo senza tregua – e senza risultati perché l’erba ricresce subito – scopre d’esser diventato il Sinistro Mietitore, che con quella falce regola l’equilibrio del mondo recidendo dolorosamente vite umane ad ogni calata della lama.
Mi è tornato in mente, senza alcuna conferma che il regista lo conoscesse, vedendo il nuovo film di Lars von Trier: La Casa di Jack (The House That Jack Built) che Videa distribuisce in Italia dal 28 febbraio, quindicesimo capolavoro del maestro danese, già circondato dalle usuali polemiche, come sempre incentrate sulle controverse dichiarazioni del regista e quasi mai centrate sul film. Che, ancora una volta, come già il precedente Nymphomaniac – col quale condivide la struttura a dialogo fra il protagonista narrante e un interlocutore-coscienza critica – rappresenta un unicum nel (pur affollatissimo) genere di riferimento. Come ogni film potrà piacere o meno, ma sfido chiunque a trovare un altro film su un serial killer che tratti la materia con la ricchezza di riferimenti storico artistico filosofici che allinea La Casa di Jack nei suoi ben 155 minuti di durata.
Durata che è stata definita eccessiva per un film “noioso”. Prima sciocchezza: von Trier ci nega la suspense, questo è vero, ma si tratta di un virtuosismo originalissimo (come l’abbondante impiego di camera a mano), non di un’incapacità. In un genere affollato di colpi di scena, inseguimenti, fughe, ribaltamenti gatto-topo, lotte all’ultimo sangue fra killer e vittima (e/o detective), il regista fa tabula rasa: gli omicidi di Matt Dillon-Jack (invecchiato e bravissimo) accadono nella forma più “banale” e quotidiana possibile (proprio come il sesso senza reggicalze in Nymphomaniac), le vittime cadono spontaneamente nella rete dello psicopatico, fanno assai poco (e molto goffamente) per opporsi alla sua violenza, e chiunque sta loro intorno – polizia compresa – nemmeno s’accorge che gli efferatissimi crimini stanno accadendo.
Pur senza negarci efferatezze visive (tanto più disturbanti nella messa in scena realistica dei geyser di sangue di tanti horror), Lars sottrae anche quasi tutto il “pulp”, ossia l’aspetto grafico della violenza, o per così dire il sexy del crimine, pur essendo gran parte delle vittime donne (a partire dall’invecchiata, sventata Uma Thurman della foto qui a destra), prediligendo l’ironia al torture porn. Fra le malcapitate, solo Riley Keough (nel film Jacqueline "Simple", nella locandina internazionale sotto a sinistra) è molto bella quanto oca e il suo massacro prenderà di mira proprio le sue erogene tette, peraltro dando prima vita a una delle sequenze più spiazzanti del film: quando la giovane capisce d’essere in balìa del killer che – pur non cercando lui la celebrità – tutti hanno imparato a chiamare Mr Sophistication, lui non prova neppure ad impedirle di chiedere aiuto; di più, l’aiuta a gridare più forte, poi addirittura le consiglia di farlo alla finestra. Nuovo colpo di scena del realismo antispettacolare: nessuno risponde, nessuno ha neppur sentito la disperata richiesta della ragazza. Come dice Jack (cito a memoria), “in questa città, in questa cazzo di nazione, in questo mondo, non gliene frega niente a nessuno se tu vieni uccisa”.
Infatti, non basterà neppure una di quelle tette fino a poco fa appetitosissime spalmata sul parabrezza dell’auto della polizia (che lo psicopatico a più riprese sfida mostrandosi apertamente come “mostro”) a farlo scoprire, nelle tenebre più agghiaccianti: quelle appunto della banalità dell’orrore che nessuno nota, benché in colonna sonora torni più volte il tema di Fame di David Bowie.
Una volta confermato quanto già si sapeva, cioè che il film è ambientato in America negli anni ’70, che quindi il protagonista Jack nulla ha a che spartire col celebre “Ripper” ottocentesco londinese, se non il macabro hobby, il regista (e il relativo press kit) è estremamente laconico sui propri intenti filosofici, affidandoli alla tautologica dichiarazione “per molti anni ho girato film su donne buone (pigliandosi del misogino, aggiungiamo noi), ora ho fatto un film su un uomo malvagio”.
Di quest’uomo, né un genio né un superman dell’omicidio alla Hannibal, il fondatore del Dogma ci nega ogni background psicologico: a parte il flashback sull’infanzia agreste citato all’inizio, non sappiamo esattamente quando né soprattutto perché inizi la sua macabra compulsione ad uccidere. Sappiamo solo che lui la spiega al suo misterioso interlocutore con un cartone animato in cui l’uomo cammina da un lampione all’altro lungo una strada notturna, paragonando la soddisfazione di un omicidio all’ombra davanti a sé, che s’accorcia man mano che egli s’avvicina al successivo, alla disperazione che s’allunga come l’ombra alle sue spalle, spingendolo così verso il prossimo crimine.
Jack vede i propri delitti come successivi perfezionamenti di una sorta di vocazione artistica: è questa la vera “casa” che il protagonista (un ingegnere, apprendiamo) tenta di costruire per tutta la storia, rimanendo via via frustrato dai propri risultati, finché il suo misterioso interlocutore non lo guida verso la rivelazione che la sua “casa” non può essere che una mostruosa installazione formata dai cadaveri congelati della sua macabra collezione. Lungo il suo cammino “creativo”, ogni quadro di morte (nel film si chiamano “incidenti”) è illustrato (ancora come in Nymphomaniac) da riproduzioni di opere d’arte: il Blake della citazione d’apertura, cacce alla volpe, la Barca di Dante di Delacroix (foto a destra), esercizi al piano di Glenn Gould; poi riflessioni filosofiche (la casa, cosa differenzia il leone dalla tigre) e storiche: gli edifici progettati dal nazista Speer, la raffinata psicologia del terrore insita nel fischio degli Stuka in picchiata, le efferatezze su scala industriale dei nazisti. E qui il campo delle interpretazioni possibili si fa sconfinato e soggettivamente libero. Saranno indispensabili ulteriori visioni del film per approfondirne il versante concettuale. Ma è senz'altro acuta e stimolante l'analisi che fa il filosofo Alberto G. Biuso nella sua recensione, notando come ciascuna delle donne uccise da Jack sembri incarnare in qualche modo un'astrazione di colpa, di un peccato. Che Jack agisca dunque come una sorta di castigo divino?
Von Trier si autocita persino, con una raffica di frammenti poco meno che subliminali da diversi suoi film: (se ricordo bene) Medea, Dogville, Melancholia, Antichrist e il molto citato Nymphomaniac; ma ormai siamo al gran finale, quello che solo un regista folle, genio o ambedue le cose insieme potrebbe concepire.
L’interlocutore misterioso Virgilio, il compianto Bruno Ganz qui alla sua ultima interpretazione, si rivela nientemeno che la dantesca guida destinata a scortare il protagonista nell’inferno dei cattivi che lo attende: qui von Trier evoca in poche sequenze Meliés e Gustave Dorè, oltre che gli intrecci di corpi dannati alla Bosch del finale di Antichrist. E, se il resto del film è dominato dal realismo dei colori spenti anni ’70, il finale è un tripudio visivo simbolista che vale la pena scoprire.
Anche se si è scettici sul provocatorio regista.
Come praticamente tutti i suoi film precedenti, anche La Casa di Jack fa storia a sé e d’ora in avanti sarà impossibile enumerare la “top qualunque numero” delle migliori pellicole sui serial killer senza inserircelo.
Mario G
(grazie ad Elena per la citazione di Blake, ad Alberto G. Biuso per quella di Delacroix)