Se la memoria non mi tradisce, credo d’aver visto Brasil al cinema quando uscì. Già, io sto fra quelli che ricordano un’era felice in cui film come Brasil passavano comodamente nei cinema, anche di una città di provincia come Lodi (dove vivevo io); dove ho potuto vedere in sala per esempio capolavori già storici come Arancia Meccanica di Kubrick (veniva riproiettato ad ogni riapertura dopo l’estate, anche oltre l’80), assurde chicche underground tipo un Liquid Sky di Slava Tsukerman, o spiazzanti scoperte come I Misteri del giardino di Compton House, che mi fece scoprire un altro grande visionario come Peter Greenaway, di cui poi ho seguito fedelmente le evoluzioni, anche se i suoi film mi facevano sempre sentire “preso in giro da un’intelligenza superiore” (definizione da me coniata per spiegare a una fidanzata dell’epoca perché insistevo a guardare quelle irritanti pellicole in cui non si capiva niente).
Cos’hanno in comune Gilliam e Greenaway? Nulla, se non l’essere due quasi coetanei ormai orgogliosamente estranei al tempo presente, il quale non a caso schiva senza rimpianti le loro opere recenti: come NightWatching di Greenaway, uscito nel 2007, mai passato in sala in Italia e solo oggi distribuito in hv da CG|Entertainment, in versione originale con sottotitoli (e di cui vedete ai lati la locandina e alcune immagini). Una scelta filologica ancorché non agevolissima per seguire i veloci, ellittici quanto affilati dialoghi fra gli attori del sontuoso tableau vivant fiammingheggiante del più pittorico regista inglese, qui impegnato a sviluppare la storia del dipinto La ronda di notte di Rembrandt, fra biografia e analisi del sottotesto iconografico.
O come appunto The Zero Theorem, ultimo opus dell’ex Monty Python (di cui vedete il poster in apertura e altre foto di scena qui di seguito), uscito per pochi giorni l’estate scorsa in qualche sparuta sala italiana e oggi parimenti recuperabile da chi avesse perso l’attimo solo grazie al dvd prontamente pubblicato ancora una volta da CG|Entertainment/RaroVideo (che offre come extra un interessante dietro le quinte con interviste al regista, al protagonista/coproduttore Christoph Waltz e ad alcuni dei suoi fidati collaboratori artistici.
Registi, dicevamo, fieramente incuranti di “cosa vuole il pubblico oggi”, che seguono da sempre un proprio personalissimo percorso artistico, anche a costo di non avere successo, essere temuti come l’influenza dai produttori e lavorare tra sempre maggiori difficoltà, con fondi scarsi per progetti grandiosi, talvolta attendendo anni per vederli realizzati, anche a dispetto della propria griffe di autori pluripremiati ai festival e ormai accreditati fra i maestri (diciamo i più obliqui) dell’ottava musa. Anche a dispetto, magari, della presenza di star di grido come il succitato Waltz, molto coinvolto nel film di Gilliam, insieme a Matt Damon e Tilda Swinton in parti secondarie. Che, ciononostante, rimane un film la cui barocca e psichedelica idea di futuro è stata realizzata e girata su un più abbordabile set rumeno, peraltro nei pressi di un inquietante impianto industriale dismesso, molto attinente alla visione distopica della storia!
Un’idea di futuro che in verità discende direttamente proprio dall’incubo orwelliano di Brasil (a tutt’oggi ritenuto il capolavoro di Gilliam), di cui The Zero Theorem potrebbe essere quasi una continuazione ideale, un aggiornamento ai nostri tempi, in cui il totalitarismo preconizzato non è più quello grigiastro di una burocrazia kafkiana, bensì quello pop di un mondo digitale, non meno soffocante benché coloratissimo nel suo sollazzevole abbaglio da cosmico videogame. E in cui il celebre tormentone carioca della colonna sonora del film dell’85 è stato sostituito da una sensuosa versione lounge di Creep dei Radiohead, sussurrata dall’argentina Karen Souza.
Stordente e centrifugo come solo un Gilliam sa essere, The Zero Theorem è stato molto criticato di non graffiare quanto il suo predecessore, di rimasticare cose già viste senza aggiungere molto di nuovo, e di farlo senza una solida sceneggiatura a reggere le (sempre geniali e divertenti) derive allucinatorie del suo regista. Critiche non infondate: la trama – nonostante i soli 102’, durata haiku per Gilliam – è un po’ involuta e difficile da seguire (non che Brasil filasse via liscio nelle sue due ore e venti circa), meno brillante del precendente Parnassus, con cui pure mi sembra condivida l’assunto di fondo.
Perché, che si tratti di un antiquato teatrino fatato o delle futuribili realtà virtuali generate al computer, il tema di fondo del regista rimane in fondo sempre lo stesso: l’eterno conflitto fra una realtà materiale squallida e opprimente e quella interiore del protagonista, raggiungibile cedendo il controllo della ragione in favore della libertà del sogno, che nel Teorema Zero è rappresentato dalla cartolinesca spiaggia virtual-tropicale in cui il tecno guru Qohen (Waltz) può vivere un amore puro e ideale con la spogliarellista Melanie Thierry (foto qui accanto), inizialmente inviatagli dall’oppressivo Management per meglio controllarlo.
Un regno del sogno che in fondo corrisponde alla sua, alla loro (di Gilliam come di Greenaway) unica idea di cinema, snobbata dal mondo dei multisala, orgogliosamente perseguita da soli nel mondo dei cinecomics roboanti. Che vi consiglio di godervi finché in Italia si trova ancora qualche editore abbastanza coraggioso da distribuire dei dvd che sicuramente non appesantiranno le ceste delle strenne natalizie in migliaia di case italiane.
Godeteveli gelosamente, con l’orgoglio un po’ dolente con cui si difendono i figli meno brillanti, che non saranno mai i primi della classe. Perché è troppo comodo lodare solo i capolavori: anche amando anche i film minori dei grandi si esprime l’autentico amore per il cinema.
Mario G