Un Kim Ki-duk in forma che rispolvera i toni cruenti già visti in Island e abbandona un po’ di lirismo e misticismo per concentrarsi su una sceneggiatura che possa universalizzare il tema della pietà attraverso un paradosso/confitto tra i due personaggi protagonisti.
Una Pietà del Michelangelo che rispecchia lo spirito dei tempi ed un po’ quello coreano filtrato da quel senso della vita del regista che vede nella realtà un dispositivo che assomiglia più ad un tritacarne che non ad una placida questione sull’essere e il non essere. Il mantra recitato di “che cosa è il denaro”, fa ben capire che il motore di questo tritacarne va ben oltre la semplice questione morale.
Un film ben fatto che celebra il talento consolidato del regista, dopo tutti i dubbi che lui stesso aveva espresso sulle ragioni del fare cinema con la videoconfessione filmata in Arirang. Autoreferenziale, disperata e assolutamente centrata sulla possibilità di filmare ancora. Quindi prova a filmare se stesso.
Il regista è un autodidatta che furiosamente ha scritto una quindicina di film. Uno dei motivi per cui lo si critica è appunto una sensazione di “approssimazione” nella realizzazione. Non va dimenticato, però, che i suoi film sono decisamente a basso budget. Nonostante tutto, film dopo film l’Europa con i suoi festival si è accorta di lui e lo ha reso famoso.
Il suo realismo nel girare alcune scene cruente lo porterà ad una crisi “psicologica” ed “artistica” quando un’attrice rischia di perdere la vita sul set di Dream nella scena dell’impicaggione. Sarà lui stesso a salvare l’attrice sorreggendola. L’arte distrugge la vita? O in senso letterale, può giustificare la possibilità di mettere in pericolo la vita di altri?
Dopo un periodo – capirete – difficile, la sensazione è che Kim Ki-duk si sia rimesso in piedi, sia uscito da questo circolo di pensieri depressivi ed abbia ritrovato la distanza giusta dall'opera (dopo l’ennesimo tentativo fatto con Amen) e anche dall'industria del cinema e che sia tornato “a fare” un film e/o semplicemente ad esprimersi con l'ambizione di fare qualcosa di ben fatto.
Questo è un film più scaltro dei precedenti, più cerebrale e per la prima volta anche meno auto-referenziale degli altri. Non supera certo in freschezza Ferro 3, il suo capolavoro. Ma è ampiamente al di sopra dei lavori precedenti che pur interessanti mancavano di rigore nella realizzazione (per esempio Time o L'Arco).
In Pietà tutto gira come un orologio e sicuramente la pellicola merita il premio ricevuto, specie se la paragoniamo ad altri lavori visti lo scorso settembre a Venezia. Intendiamoci non un capolavoro, ma un premio ad uno dei migliori registi in circolazione per tenacia creativa. Per questo l’avete visto cantare alla premiazione, cantava la stessa canzone sentita in Arirang, una canzone disperata che invocava il ritorno alla creatività!
Il premio lo merita per la sceneggiatura ambiziosa simbolicamente, per le immagini visive forti e graffianti di un sud est asiatico degradato e per una direzione della fotografia consapevole dei significati allegorici del film, dove ombre e polvere recitano al posto degli attori e per il lavoro straordinario degli attori, sempre disturbanti ed intensi nel trasmettere le emozioni dei personaggi che ricordo sono personaggi allegorici di forze psicologiche e cosmiche più vaste, sia che si voglia leggere il complesso di edipo o le dinamiche sociali della malavita o il peso schiacciante del capitalismo. Ho letto critiche in giro secondo cui la storia “non è credibile”, come se a Kim Ki-duk interessasse il realismo storico.
Ogni tanto bisognerebbe pur ammettere da un punto di vista critico che esistono degli autori che parlano d’altro e che i cronisti del tempo (o del loro tempo) come per esempio il pur bravo Assayas dovrebbero fare i documentaristi perché il cinema deve poter varcare i confini del reale per esplorare “l’invisibile” dell’immagine e del mondo. Non tutto può essere ricondotto alla triste scritta “tratto da una storia vera” che è la malattia del cinema italiano così poco credibile da doversi rifugiare al “bollo culturale” alla legittimità del reale in carta per essere preso in considerazione.
Torniamo quindi alla sceneggiatura geometrica di Kim Ki duk. Il primo personaggio Kang-do compie una parabola specifica da efferato e senza scrupoli sicario di un usuraio a figlio in cerca di amor materno. Kang-do è sempre pronto a storpiare i clienti ogni mattina dopo una buona colazione per incassare il denaro dall’assicurazione ed alimentare così un risarcimento 10 volte superiore al denaro prestato. Il film ci guida in una discesa agli inferi, alle misere illusioni degli umili pronti a tutto per ottenere del denaro per sopravvivere, prigionieri del loro stesso orizzonte di mediocrità, perfino complici del sicario nell’effettuare le sue storpiature. Eppure con l’evolversi della storia la pietà farà compiere un percorso emotivo a questo personaggio.
Il secondo personaggio la presunta madre di Kang-do compie in parallelo un’altra parabola, da vittima a carnefice. Portando il concetto stesso della pietà ad un mero paradosso temporale. In quale momento abbiamo pietà e di chi? Sollevare queste domande è già un merito dell’opera, che cerca poi di estetizzarle con Michelangelo o con alcune immagini direi “cristologiche”.
Più di tutto questo è la densa corrente emozionale della recitazione che dal sadismo alla disperazione della solitudine di Kang-do, passa dalla riconquista dell’amore di un figlio alla vendetta della madre per l’uccisione di un figlio. I cortocircuiti che si creano e i paradossi sono il merito della sceneggiatura, che mette in piedi così una mitologia dei personaggi.
Buon lavoro quindi, sia visivo che di scrittura, ma anche attoriale. Ecco perché meritava il premio della giuria. Unico neo è un po’ di calcolo freddo con cui è concepita la storia, forzandone alcune interazioni.
In fondo, è proprio questa completezza mancata è stato un po’ il problema di The Master, un gran film solo per il gran lavoro di recitazione dei due attori. Paul Anderson si è limitato a dare loro la cornice giusta per esprimersi, cercando una certa invisibilità nei confronti della sceneggiatura. Una neutralità pensata per esaltare il rapporto maestro e discepolo ma che in fondo sembra solo prudenza della produzione per un tema che poteva sembrare critica ed apologia di Scientology nello stesso momento.
Alcuni rimarranno con la convinzione di un festival privo di capolavori, altri invece con la voglia di premiare nuove voci e nuovi autori. Rimane comunque da segnalare che questo film e The Master sono indubbiamente i migliori film, qualitativamente parlando, visti a Venezia.
Walter L’Assainato
P.S.: pubblichiamo la recensione di Walter non illustrata da foto del film (a parte la locandina in apertura) perché sarebbero le stesse che avete già visto accanto alla recensione di Marco Marchetti, alla quale vi rimandiamo per un confronto e... per alimentare il dibattito! (NdR).