Video+gioco, gioco “a” video. Spesso penso che non usiamo affatto la parola giusta e che dovrebbe cambiare a seconda dell’opera che abbiamo di fronte. A volte un elenco di generi mi rassicura come se ne particolareggiasse la sua natura ma non sembra essere sufficiente per creare una definizione definitiva.
In un mix vorticoso di parole inglesi, acronimi e traduzioni italiane approssimative mi sento falsamente rassicurato: sparatutto in prima o terza persona (first-third person shooter), giochi di ruolo (role play games), giochi con piattaforme (platform games), multigiocatore (multiplayer), mmo (massively multiplayer online), mmorpg (massively multiplayer online role playing game), giochi di corsa (racing), e-sports, simulatori, stealth, open world, survival horror, hack and slash, picchiaduro, strategico a turni... solo per nominarne alcuni (wikipedia ne conta 78).
Il cerchio non si chiude mai, gli anni passano i generi e sotto-generi aumentano, pensate agli attuali battle royal. Un gioco è fatto di tecnologia, certo, ma anche una lavatrice lo è. Si tratta di programmazione, sì, ma anche excel è un programma e non possiamo chiamarlo videogioco, anche se conosco alcuni tizi che dicono di divertisi con esso.
Allora di cosa si tratta? Si tratta essenzialmente di gameplay, meccanismi di gioco. Forse ma un meccanismo di gioco come raccogliere la spazzatura e lavare i piatti nella scena in cui Kara ritorna a casa in “Detroit Become Human” potrebbe a molti sembrare un controsenso del concetto di gioco. Possiamo dire che un gioco è un gioco perchè ci si diverte? Non basta... come la mettiamo con gli e-sports dove la competizione e la vittoria in team sono le cose più importanti? E con i survival Horror? Forse meglio abbandonare l’idea di una definizione stringente.
Videogioco. Lasciamo tutto così. A proposito non siamo d’accordo su cosa sia un gioco, figuriamoci su cosa sia un “video” visto che il video può essere un televisore oppure un telefono, un tablet, un laptop, una consolle portatile o un visore di realtà virtuale.
Dimenticavo: e i suoi contenuti? Un videogioco è anche qualcosa che ha una storia interessante e dei personaggi forti. La parola videogioco è una minigonna stretta, una provocazione seduttiva che mostra un corpo ma non dice nulla sulla reale personalità di quello che avvolge. Come potrebbe esistere un gioco di kart, senza la faccia di bronzo di Super Mario?
Insomma cosa c’è dentro? Narrativa, gameplay, interfacce, tecnologia, cinema, sport, arte, musica, design, fantascienza, letteratura... i videogiochi stanno conquistando il nostro tempo e come un buco nero stanno inglobando un pò di tutto e lottano per ottenere lo scettro di ottava arte.
Alcune opere come quelle di David Cage ed il suo “Detroit Become Human” si potrebbero definire “cinegiochi interattivi” per la vocazione filmica e la natura interattiva dei suoi meccanismi di gioco nati per esplorare narrazioni multiple. La vocazione filmica è lampante e non è un caso che avviando Detroit Become Human dopo la presentazione del titolo su schermata nera appare “Scritto e diretto da David Cage”. Il gameplay però non scompare è ancora lì con i suoi “quick events” da cliccare.
Così il videogioco mi sorprende ancora, mi stupisce, mi spiazza come fa l’arte. Allora dai per non perdersi procediamo per semplificazioni. Narrativa-Gameplay. In questo articolo voglio parlarvi di come nell’eterna lotta tra meccanismi di gioco e narrativa, quest’ultima sta scalando moltissime posizioni. Cerchiamo di approfondire la questione. Ci sono due cose che hanno inciso profondamente nel riportare la narrativa al centro dell’attenzione nei videogiochi.
Il primo elemento è visuale. Stiamo parlando della grafica 3D, l’incredibile e inarrestabile sviluppo delle tecniche 3D real time: modellazione, luci, rendering, motion capture, rigging, consentono oggi di creare volti ed espressioni molto vicine al comportamento umano. Non più facce con lo sguardo vuoto ma volti digitali quasi indistiguibili o meglio foto-realisticamente simili a quelli umani e con espressioni emotive sofisticate. Il cinema ha rubato immediatamente queste tecniche per sviluppare sequenze “ibride” semplicemente impensabili prima.
Pensate a cosa sono riusciti a fare con Rise of the Planet of the Apes (2011) e Dawn of the Planet of the Apes (2014). Lo sguardo di Caesar che trabbocca bontà, fierezza e leadership è semplicemente un lavoro incredibile, emozionalmente coerente con il lavoro di un bravo attore la cui maschera è indistinguibile dalla pura maschera digitale. Magie del motion capture applicato al tracciamento dei movimenti facciali. Riguardatevi questa clip su youtube per capire di cosa sto parlando dove si vede l’attore coperto dai puntini che tracciano i movimenti e il risultato finale della digitalizzazione 3D.
Superficialmente in molta critica cinematografica si tende ad inserire in una scatola chiamata “effetti speciali” quello che succede nei vari film d’azione specialmente quelli a tema sci-fi. Un pò come se il film è sempre un film come gli altri ma con trucchi ed espedienti. Quello che sta succedendo però impatta in maniera radicale sul senso del cinema sconvolgendo il lavoro dell’attore e del regista e del direttore della fotografia oltre a cambiare le logiche di produzione e fruizione (vedi l’utilizzo del 3D in sala con i vari occhialini). Insomma il solito effetto “disruptive” delle nuove tecnologie.
La seconda cosa più impercettibile, più complessa, è lo shift culturale del mondo dell’industria videoludica e dell’avanzare dei gusti del pubblico. David De Gruttola alias David Cage è il simbolo secondo me di questo “salto quantico” nel modo di pensare di un “produttore-creatore” di videogiochi. Non a caso la sua azienda fondata nel 1997 si chiama Quantic Dream. David Cage ha prodotto una triade di giochi riconosciuti come film interattivi dalla stampa videoludica sto parlando di “Heavy Rain” (2010), “Beyond: Two Souls” (2013) e il recente “Detroit: Become Human” (2018).
Non che Cage sia stato l’unico a percorrere questa strada della narratività interattiva ma indubbiamente lo ha fatto con una maggiore chiarezza di idee ed intenti. Basta guardare a tal proposito i suoi primi lavori che sono stati apprezzati anche da critica e pubblico come “Omikron: The Nomad Soul” (1999) (con la partecipazione straordinaria di David Bowie che sicuramente aveva intuito la portata rivoluzionaria delle idee di Cage) e “Fahrenheit” (2005). Certo a quei tempi la grafica 3D faceva fatica ad essere filmica. Comunque il gusto per significati più complessi che si rivolgessero ad un pubblico più adulto e la passione per il cinema caratterizzano la cifra di un personaggio che in una intervista del 2005 dichiarò: ““Il mio desiderio di creare videogiochi risale all'arrivo del 3D in tempo reale [...] Mi sentivo un regista pionieristico all'inizio del XX secolo: alle prese con la tecnologia di base, ma anche consapevole del fatto che rimane tutto da inventare, in particolare un nuovo linguaggio sia narrativo che visivo. "
(fonte: Wikipedia)
Il paradigma da cambiare era quello del gaming inteso come puro gameplay, esperienza centrata sul divertimento, basata su regole, ad una più ampia di intrattenimento basato su storie, interazioni e quindi di “gioco” della narrativa. David Cage infatti scrive sceneggiature che poi diventano giochi con narrazioni interattive multiple. Esperimenti di narrazioni multiple sono stati fatti al cinema come nell’editoria. Ma è grazie ai computer che le cose cambiano sul serio perchè c’è la possibilità di “interagire”.
Fermiamoci un attimo a comprendere bene questa idea di narrazione e di interattività. Cercando di definire un pò meglio le cose possiamo dire che nella narrazione lineare A causa B e si trasforma in C. ABC, questa sequenza di eventi possiamo invertirla, “intrecciarla”, giocare con la visuale dello spettatore mostrare prima o mostrare dopo per creare mistero e suspense ma alla fine si ricompone in una storia lineare. Alla fine del racconto A causa B e si traduce in C.
Nel caso della narrazione interattiva non è l’autore a decidere ma lo spettatore. Questo complica le cose. Riutilizzando l’esempio precedente A causa B o potrebbe causare C se si sceglie B allora le conseguenze sono D, se si sceglie C le conseguenza sono E. Quindi a seconda della mia scelta ho 2 storie ABD o ACE. Se le lettere vi confondono traduciamolo in una storia:
EVENTO A: mia moglie assolda un killer per uccidermi e riscuotere la sua lauta assicurazione sulla vita.
EVENTO B: il killer mi uccide
EVENTO C: il killer fallisce la sua missione e viene arrestato.
EVENTO D: mia moglie incassa la sua assicurazione ma viene ricattata dal killer
EVENTO E: io scopro che il mandante è mia moglie e decido di vendicarmi assoldando a mia volta un killer.
Personalmente preferisco ACE come sequenza ma se volete potete scegliere ABD. Le due storie sono incompatibili l’una con l’altra. Teoricamente non possono stare nello stesso film. A meno che non si ricorra a stratagemmi tipo “Sliding Doors” (1998) un film di Peter Howitt dove però per pura necessità filosofica i destini paralleli della protagonista confluiscono nel finale.
Non è un caso che Howitt sia stato ispirato da Krzysztof Kieślowski (autore dell’acclamata trilogia film blu, bianco, rosso del 1993-1994) fa lo stesso tipo di riflessioni nel film “destino cieco” del 1981 dove le possibilità sono una deflagrazione dolorosa delle possibili vite del personaggio inconciliabili tra loro. L’unico elemento comune è la condizione umana, quella della solitudine, l’uomo è solo nel cosmo. Anche se trovasse la felicità temporaneamente lo aspetta la morte. Film nichilista ma che mostra chiaramente come l’epilogo filmico sia come un buco nero che assorbe tutti i destini possibili. Anche qui le narrazioni multiple confliggono all’interno di una narrazione lineare.
Esiste qualcosa come la narrazione multipla o tutto torna ad essere linearizzato nella nostra mente? I videogiochi con la loro interfaccia hardware e software fanno una grande differenza rompendo l’isolamento passivo e solipsistico dello spettatore che rientra in scena cliccando un tasto. Se fossi io a giocare “cliccherei” per scegliere ACE. A differenza del cinema lo spettatore fa la sua scelta e in qualche modo l’autore si assottiglia come artefice del destino dei suoi personaggi perdendo il controllo sull’epilogo.
La narrazione multipla non significa solo la combinazione dei possibili. I videogiochi non sono un semplice sliding doors come potrebbe sembrare dove poi tutto confluisce e si annoda nel finale. Una illustrazione delle varie possibilità. Nei giochi noi prendiamo il controllo del fato e il deus ex machina della narrazione siamo noi.
Questa interattività come dicevo cambia radicalmente le cose. L’autore o sceneggiatore quando scrive una storia interattiva intuisce i temi sensibili di chi “recepisce” la narrazione. Cosa succederebbe se lasciassimo sopravvivere il cattivo che non vogliamo uccidere? Cosa succederebbe se quel giorno non andassimo al centro commerciale o a giocare nei giardini con nostro figlio? Su queste domande sviluppa le alternative alla sua storia e lascia che sia lo spettatore a decidere del destino dei suoi personaggi.
Questa concessione però non è totalmente libera nel senso che lo spettatore scrive la sua storia, ma sicuramente seleziona la storia che per lui è più emozionante o credibile. Immaginate che differenza di coinvolgimento ed immedesimazione ci sono se voi fate le scelte. Certo l’autore recupera lo sterzo subito dopo e quello che segue emerge sempre dalla sua fantasia ma a quel punto voi state navigando in un oceano di possibilità condiviso. Anche voi cominciate ad amare quei personaggi e gli accadimenti in una maniera più profonda. Niente più alibi e critiche del tipo: “che idiozia far morire il cattivo proprio adesso”. L’immedesimazione vola e si consolida e voi diventate un tutt’uno con la storia.
Un altro grande tema che bisogna affrontare è quello delle interfacce hardware e software. Qualche riga fa dicevo in maniera sintetica che avrei “cliccato” sull’opzione ACE. Ma non è esattamente quello che succede. Non si tratta di un semplice click ma di un meccanismo di gameplay specifico. Innanzitutto c’è qualcosa di fisico da cliccare poi di immateriale, una icona per esempio. Il design dell’icona e la maniera in cui la controllo o risponde fanno parte delle interfacce.
Questo qualcosa di fisico può essere un joystick, uno schermo multi touch (come nel recente bellissimo “Erica” di Flavourworks, di cui parlerò nel prossimo articolo), un pad, un controller giroscopico (il famoso WII remote), un controller luminoso tracciato da una cam (playstation move), una cam che traccia il movimento delle mani nell’aria (come il kinect di xbox), oppure un controller all’interno di un set virtuale (playstation VR). Questo anello tra il nostro corpo e il corpo della macchina che gestisce l’interazione è importante ma non è l’unico. L’altro anello è quello dell’interfaccia visuale, un software che fa apparire messaggi, icone, immagini ed eventi per facilitare la nostra interazione. Per capirci quello che clicchiamo a video.
Queste interfacce hw-sw determinano in maniera cruciale il modo in cui noi prendiamo queste decisioni e condizionano il nostro senso di libertà e partecipazione.
Ad esempio in Detroit Become Human si usano dei “quick time events”. Durante una scena se stiamo camminando e c’è un muro da scalvalcare il sistema con un messaggio a video ci dice “per scavalcare premi X”. Se lo facciamo nel tempo prestabilito l’azione si compie, altrimenti fallisce condizionando quello che avviene. Entra in gioco non solo la qualità e la soluzione dell’hardware e la qualità delle soluzioni visive ottenute via software ma soprattutto l’abilità del giocatore a “performare” le azioni richieste dal gioco. L’abilità a “giocare” determina sicuramente il potere ed il controllo che abbiamo sulla narrazione. Il deus ex machina è davvero deus se il giocare è bravo altrimenti non accede all’oceano di opzioni multiple ma rimane nel sentiero più scontato della storia.
David Cage ha avuto il merito di concepire i videogiochi come film e di esplorare l’implementazione di interfacce e contenuti finalmente più interessanti dei soliti giochi ammazza tutti e salva il mondo.
Nel bel libro “David Cage – Esperienze interattive oltre l’avventura” di Marco Accordi Rickards, Micaela Romanini e Guglielmo De Gregori, collana diretta da Matteo Bittanti e Gianni Canova, si evidenzia la necessità che ha il medium videoludico di maturare e il contributo significativo che Cage ha dato sino a questo momento a livello di contenuto. Con le parole di Matteo Bittanti: “(...) A quarant’anni dalla sua nascita, il videogioco è un bamboccione. Un adulto che rifiuta di assumersi le proprie responsabilità e che si comporta come un adolescente. Sotto certi aspetti, è patetico. Procede per inerzia a forza di sequel, prequel, remake e rimasterizzazioni. Si esprime con suoni gutturali come franchise, spin-off, tie-in e DLC. Sul fronte dei contenuti, pare il fratello scemo del peggior cinema di serie B, che scimmiotta continuamente. Un po’ come quei bambini prodigio che da grandi finiscono per deludere le aspettative dei loro genitori. I videogame di David Cage rappresentano l’eccezione”. (fonte: Rickards, Marco Accordi. David Cage. Esperienze interattive oltre l'avventura (Italian Edition) . Edizioni Unicopli. Edizione del Kindle)”
“Heavy Rain” parlando della paura di un padre di perdere il proprio figlio e della sua discesa agli inferi della follia alla ricerca del pargolo perduto aveva scioccato il mondo videoludico con un gameplay iniziale dove si girovaga per la cucina e si gioca in giardino con il proprio figlio. Azioni quotidiane per niente spettacolari mai viste su un gioco.
“Detroit Become Human” l’ultima delle sue creazioni cerca di perfezionare sotto molti punti di vista quanto di buono fatto nei progetti “Heavy Rain” e “Beyond the two souls” a livello di grafica facciale e di interfacce sobrie piene di quick time events e quantità di opzioni disponibili nei punti chiave della storia.
Il gioco ha avuto una ricezione positiva ma ha anche ricevuto alcune critiche per il fatto di essere un gioco non troppo innovativo e originale nella sua storia. Io credo non sia stato compreso lo sforzo di Quantic Dream di fare un prodotto che potesse stare sul mercato e vendere milioni di copie con un linguaggio e degli eventi più abbordabili dal grande pubblico ed ha deluso quella parte ristretta di critica che vedeva in Cage la stella nascente di un nuovo artista e lo ha bollato come stereotipato, un giudizio a mio avviso severo e superficiale.
Certo l’entusiasmo con cui era stato acclamato Heavy Rain ha forse complicato le cose per Quantic Dream. Con le parole di Cage: “Sicuramente Heavy Rain ha avuto un grande impatto sulla mia vita e su quella del mio studio. Prima di allora, volavamo ancora un po’ sotto i radar. Sì, creavamo giochi e avevamo il nostro seguito, ma eravamo ancora percepiti come quelli che fanno giochi strani, molto artistici e… beh… francesi! Con Heavy Rain, siamo riusciti a raggiungere moltissime persone, che si sono interessate alla nostra particolare ricerca artistica. (fonte: Rickards, Marco Accordi. David Cage. Esperienze interattive oltre l'avventura (Italian Edition) . Edizioni Unicopli. Edizione del Kindle).
“Detroit Become Human” non fa che continuare quel percorso “commerciale” e “artistico” raffinandolo senza stravolgerne la formula. La tematica di “Detroit Become Human” è un argomento perfetto per posthuman.it perchè parla di androidi e di un futuro dove cosa è umano e cosa no è in discussione.
(SPOILER ALERT: sebbene non voglio raccontarvi tutta la narrazione di Detroit devo accennare ad alcuni eventi per arrivare a delle conclusioni critiche quindi smettete di leggere se non volete vi sia rivelato alcunchè riguardo la trama.)
Lo scenario è quello di un futuro prossimo venturo. Siamo a Detroit nel 2038 dove gli androidi, robots a nostra immagine e somiglianza, sono entrati a far parte della nostra vita quotidiana. Sono prodotti da un’azienda chiamata CYBERLIFE. Ci sono androidi che lavorano, che si occupano dei nostri figli, degli anziani, puliscono i giardini o fanno i commessi. Un esercito silenzioso tra le nostre vite. Purtroppo però questo paradiso mostra delle crepe.
La società recepisce male questa innovazione e ci sono molti movimenti che chiedono il divieto (BAN) della produzione di androidi perchè rubano il lavoro degli umani. Sugli autobus, nei negozi e negli ambienti pubblici ci sono posti dedicati agli androidi che appaiono segregati e divisi dalla popolazione locale.
Quando alcuni androidi smettono di funzionare correttamente vengono definiti devianti. I consumatori possono riportarli indietro e pretendere una loro riparazione o reset ma a volte questi robot scappano o compiono atti criminosi che vanno dal ferimento sino all’omicidio del loro proprietario. Durante il gioco si vedono molte persone utilizzare questi robot senzienti ed intelligenti con un atteggiamento violento e irrispettoso in una parola razzista.
La stessa polizia non vede di buon occhio la presenza di androidi considerandoli delle minacce e boicottando la loro presenza. Per questo motivo l’azienda che li produce CYBERLIFE per evitare il ripetersi di questi eventi utilizza Connor un detective androide estremamente intelligente da affiancare nelle indagini della polizia locale (Hank Anderson è il poliziotto alcolista e che odia gli androidi con cui Connor deve confrontarsi) per visionare l’accaduto e cercare di capire, prima che si diffonda il panico, il motivo di questi malfunzionamenti.
Kara invece è un androide che si prende cura di una bambina “Alice” con cui sviluppa una relazione forte. Quando assiste ad una escalation di violenza da parte del padre ubriaco la sua umanità prende il sopravvento cercando di difendere la ragazzina. Il padre scarica su Kara la sua violenza facendola a pezzi. Quando il padre di Alice porta a riparare Kara nonostante il reset l’androide ricostruisce i suoi ricordi e al ripetersi delle violenze scappa via con la bambina. Kara cercherà di andare in Canada dove non ci sono leggi contro gli androidi, dove potrà crescere quella che ormai sente come la sua bambina.
Dove vanno gli androidi devianti che si ribellano? I più si nascondono ma esiste una misteriosa Jerico una terra promessa di una resistenza androide. Chi è a capo di questa resistenza? Sarà Markus il terzo protagonista a trovare Jerico e una volta conosciuti i suoi componenti li aiuterà a ribellarsi.
Markus è un androide domestico che si è preso cura del famoso pittore Carl Manfred che lo ha aiutato a sviluppare la sua libertà e la sua coscienza.
Questa ribellione travolgerà in una escalation di finali alternativi le vite di Connor, Markus, Kara, Alice, Hank, Carl. Non cito tutti gli altri personaggi minori. In fondo i finali saranno vostre scelte personali, quindi inutile raccontarveli lascio a voi la scoperta della densità delle storie.
Vorrei sottolineare un aspetto che non è stato apprezzato in alcune recensioni critiche. Alcuni hanno stigmatizzato il futuro dipinto da Cage come un futuro senza idee. Hanno visto come dissonante la presenza di androidi ultra sofisticati al fianco di tecnologie obsolete come i tablet per esempio. Inoltre l’assenza di meraviglie e oggetti futuristici renderebbe la storia poco “fantascientifica”.
Il punto per Cage non era dipingere un futuro visionario, non è un caso che lo abbia dipinto come un futuro prossimo infatti ha scelto il 2038 cioè solo 20 anni dopo l’uscita del gioco. Direi che la sfida era quella di creare un futuro che ci riguardasse da vicino ed in maniera provocatoria parlare di questo futuro disegnando molti elementi in comune con il nostro presente.
Il punto è l’assenza di umanità degli androidi. Noi misuriamo l’umanità registrando quelle decisioni basate sull’empatia e il coraggio che niente hanno a che fare con il calcolo. Quindi gli androidi diventano umani se sono in grado di essere liberi e di provare empatia verso gli altri, senza regole o calcoli.
Proviamo a ribaltare la situazione: se nella storia al posto degli androidi ci fossero semplici esseri umani le loro decisioni sarebbero il frutto di “eroismo” e di qualità “elevate”. Il punto è che nemmeno noi nella nostra quotidianità siamo abbastanza umani da attenerci ad alti standard dell’essere umani. La storia della macchina che diventa uomo è anche la storia dell’uomo che non elevandosi rimane macchina.
In questo senso è illuminante la presenza di Markus un androide che sceglie di stare dalla parte dei deboli e degli oppressi che capisce che la libertà e il diritto di esistere sono la cosa più importante. In quel momento in cui Marcus smette di scappare che diventa davvero un umano e il migliore dei robot a cui ispirerà libero pensiero e rispetto tra diverse condizioni dell’esistere naturale e artificiale.
(FINE SPOILER)
Sebbene David Cage abbia utilizzato l’espressione di “film interattivi” parlando dei suoi giochi credo che possiamo comunque considerarla una definizione limitante. Nel senso che queste opere vanno oltre, creano un nuovo tipo di esperienza la cui definizione non è esauribile nel binomio cinema + interattività.
Sono d’accordo con Matteo Bittanti quando scrive: “Molti, tra cui il sottoscritto, trovano repellente il concetto di “film interattivo” di cui Cage è uno dei principali sostenitori. Lo considerano un ossimoro che non rende giustizia ai due media che giustappone. Un film non è interattivo. Un’opera interattiva non è un film: i due concetti si escludono reciprocamente. Non basta certo digitalizzare le movenze e le fattezze di un attore “in carne e ossa”, per esempio Ellen Page nel caso di Beyond: Two Souls, per realizzare il chimerico sodalizio tra cinema e videogame.”
(fonte: Rickards, Marco Accordi. David Cage. Esperienze interattive oltre l'avventura (Italian Edition) . Edizioni Unicopli. Edizione del Kindle.)
Dal mio punto di vista i videogiochi con le loro interfacce hardware e software hanno la potenzialità di creare un’esperienza molto più complessa di quella filmica spingendo il giocatore bravo ad un confronto con se stesso molto più personale e profondo, pilotando la storia nella direzione della sua curiosità e della sua immedesimazione. L’autore dal canto suo è costretto a scrivere centrando il suo lavoro non su un’unica posizione ma allargando i suoi punti di vista nella vastità di opzioni possibili. Certo così facendo perde forza e presenza nell’epilogo, dove il giocatore ha deciso di arrivare, ma l’autore ne guadagna in termini di complessità e ampiezza dell’universo che propone. L’autore esce da un universo assoluto ed entra in un universo relativistico dove dovrà determinare molti finali, dare più libertà ai personaggi e sviluppare diverse linee narrative con etiche ed estetiche alternative.
Il futuro del videogioco dopo 40 anni è appena arrivato e tra innovazioni hardware e software si stanno schiudendo anche nuovi orizzonti artistici e commerciali. La consapevolezza della vocazione culturale del medium videoludico implica lo sviluppo dell’analisi culturale del videogioco. Parlare di videogiochi significherà sempre di più mettere in relazione con il mondo esterno le narrazioni autoriali o le relazioni del gameplay con la società e i giocatori. Non basterà più parlare solo di framerate o di engine grafico. I vari titoli in circolazione stanno sperimentando diversi equilibri tra i vari elementi del videogioco producendo differenti centri di gravità nell’esperienza sociale, narrativa e ludica. Di questo continueremo a parlarvi nei prossimi articoli. A presto!