Sta per cominciare il concerto finale, l’acme del grandioso, del creativo, del geniale e totale che fino a questo momento è stato possibile concepire, perché va in scena l’addio ai concerti (tramite il tour finale Us+Them) di Roger Waters e quindi dei Pink Floyd. L’arte di Waters ha trascinato i Floyd, la sperimentazione musicale e non solo per decenni e tutt’ora lui ne costituisce l’anima più emblematica; non essere presenti a questo tour equivale a mancare un appuntamento con la Storia e con le energie sottili, surreali: assorbite le vibrazioni floydiane di Waters e dimenticate definitivamente le lordure capitaliste del pop.
Adesso, nel celebrare la chiusura del cerchio, sono lì proprio dove la Storia dell’Occidente è cominciata: al Circo Massimo, nell’antica Vallis Murcia, davanti ai palazzi imperiali che tuttora guidano la nostra cultura. Davanti a me, tra poco, ci sarà Waters in compagnia dei fantasmi floydiani che amo e che mi ispirano da una vita, con l’Impero Connettivo che vibra olografico dentro di me.
Con questo post comparso sul blog HyperHouse festeggiavo l’imminente concerto di Roger Waters del 14 luglio, lì al Circo Massimo di Roma dov’ero in ansiosa attesa. Intuivo già le linee epocali dell’evento, una serata in cui la Storia si sarebbe contratta in uno di quei tipici momenti asincroni, ripiegandosi nel fragore caotico di emozioni entropiche in cui le circostanze attraversano, tutte assieme, un buco piccolissimo. Ciò che ne è poi scaturito è stato soprattutto un senso di splendido commiato, tristezza per un epilogo che, a causa dei 75 anni di Waters, si può riassumere come l’ultimo tour del bassista dei Floyd, di colui che alla fine dei conti si è dimostrato quello che sospettavamo essere: la mente creativa della band, quello che non solo ha firmato moltissimi brani ma che, soprattutto, ha sempre fornito la traccia cognitiva agli album succedutisi per tutti i ’70, da Dark side of the moon a Wish you were here, da Animals a The wall fino a The final cut dell’83, opera questa assai poco apprezzata ma che ha avuto il pregio di mostrare al mondo che i Floyd, in quella configurazione con Waters sulla plancia di comando, erano arrivati al capolinea. Il Nostro, infatti, dall’85 ha intrapreso una carriera solista assai ricca di difficoltà e fino a pochi anni fa ha scontato duramente, con lo scarso successo, la pretesa di essere creativo, l’esserlo con i suoi tempi serrati, con le sue produzioni discografiche ma soprattutto di concerti che sfiancherebbero pure un trentenne; nel frattempo gli altri tre macinavano successi, favoriti dall’enorme genio che, proprio col nome Pink Floyd, Roger aveva precedentemente disseminato nell’immaginario collettivo: con quel moniker per tutti i ’90 e anche nel nuovo millennio David Gilmour, Richard Wright e Nick Mason hanno continuato a produrre musica sicuramente eccellente, ma priva di quella genialità catartica e innovativa che il solo Waters possedeva.
Con queste premesse sentivo che lì al Circo Massimo si stava per consegnare al mito e ai ricordi una stagione creativa senza pari, pensavo che nessun altro potrà essere in grado di produrre per chissà quanto tempo una tale colossale macchina da concerti, un tale caleidoscopio artistico a volte psichedelico, a volte distopico, in grado di aprire una finestra sulla psiche di ognuno di noi e sugli spazi siderali, dettandoci le regole del viaggio cosmico e mostrandoci gli orrori raccapriccianti e disumani di cui siamo capaci. Chi altri ha la capacità di progettare uno show come quello dell’Us+Them Tour dove uno schermo di 66 metri per 12 domina il palco, dove i musicisti sono soltanto degli omini lontani immersi nel flusso emotivo delle immagini, dove molteplici rivoli cognitivi si schiudono in ogni istante attraverso le scenografie che si susseguono sia sul palco che sulla platea? Provo a descrivervi alcuni brandelli di emozioni vissute al concerto: il ritorno del maiale gonfiabile Algie, enorme, che svolazza imponente e ripugnante sopra gli spettatori; il planare di inquietanti lucide sfere sospese sul pubblico, a raffigurare l’alienità degli spazi siderali; il susseguirsi di composizioni grafiche sognanti o racconti iconografici della brutalità dei regimi politici che scorrono alternativi sullo schermo, vibrando nella psiche meravigliata degli spettatori mentre gli incessanti brani musicali vengono eseguiti dalla band in modo ineccepibile, con la voce dell’ex Floyd che risuona ancora, alla sua veneranda età, come un raschio insidioso nella nostra coscienza, sollecitando la ribellione al sistema politico ed economico mondiale, indicando chiaramente e senza parafrasi i colpevoli, sia in termini di uomini che di nazioni… Vi risulta che gli altri tre Floyd abbiano mai fatto questo? Vi sembra che David Gilmour, nei suoi tour, sia così mastodontico, evocativo e incisivo, pur eccellendo nel cristallino e superbo suono della chitarra? No, lo scettro della più profonda creatività Floyd, che va ben oltre l’emozionale, è ancora nelle salde mani di Roger Waters e al Circo Massimo lo ha dimostrato ancora una volta, snocciolando un repertorio che, come quello di Gilmour, affonda in One of these days del ’71 (capolavoro multimediale e sonoro nell’esecuzione di Roger, la chitarra perfetta quasi quanto quella dell’antico bandmate) per poi percorrere tutti gli album successivi, con un piglio empatico nettamente superiore a quello degli ex compagni e dove a mancare, ma nemmeno troppo, è proprio il tocco chitarristico di Gilmour.
Nell’Us+Them Tour ci sono anche quattro o cinque brani del nuovo lavoro (notevole) di Waters, Is this the life we really want e, pur essendo passate ere geologiche tra il suo materiale floydiano e quello attuale, non c’è traccia di una cesura netta col passato, l’armonizzazione del moderno con il repertorio è completa e complessa; l’intro al concerto, poi, è già di per sé un’opera d’arte: su una vasta spiaggia placida, una donna è seduta di spalle sulla duna e attende che qualcosa o qualcuno compaia dal mare; certo questo è un riferimento ai migranti, un appello struggente ad accogliere dal Terzo Mondo coloro che fuggono per disperazione, donne bambini e umanità indifesa, tutte vittime schiacciate dalle politiche coloniali e liberiste dell’Occidente. Waters sottolinea continuamente le responsabilità del nostro sistema politico ed economico condannando una pletora di Stati: su tutti Israele per la sua politica di oppressione palestinese, ma massacra anche gli USA (prendendone incessantemente in giro il presidente, scatenando nella platea risate e burle, che rimangono le uniche armi davvero capaci di ridicolizzare un essere umano) senza dimenticarsi dell’Europa, fino a condannare l’intero sistema liberista e guerrafondaio che l’Occidente ha saputo produrre, capace di scatenare sulla Terra l’inferno ovunque e pronto a farlo anche nello spazio profondo, come sembrano tratteggiare le orwelliane immagini distopiche della Battersea Power Station, il celebre edificio industriale presente sulla copertina di Animals, che fluttua inquietante nel cosmo più profondo.
Sono tutte consapevolezze trascendentali che prendono l’anima, un’enorme psiche collettiva che Waters vorrebbe unita alla coscienza di ognuno di noi, così da poter fronteggiare un mondo divenuto inumano; lui ci guida verso uno spettacolo totale, ci accompagna dentro una forma d’arte portata a livelli mai raggiunti prima. L’incessante sofisticazione della macchina da concerti che lui inventava già coi Floyd ha raggiunto ora livelli incredibili e il risultato è una catarsi, una commozione, un muto scendere nei dettagli dell’anima di ognuno di noi in cui Roger ci accompagna solo fino a un certo punto, lasciandoci poi liberi di trarre considerazioni, emozioni, conclusioni, rabbia, partecipazioni, trascendenze. In questo l’ex Floyd non fa altro che usare la tecnica liberista delle aziende, in cui non è importante se si produca cemento o software, ma dove a contare è soltanto la trascendenza del profitto espresso con astronomici numeri astratti; così, lui usa i messaggi insiti nelle vecchie song floydiane e li fa trascendere verso il teatro, l’arte, la consapevolezza di nuove cognizioni aderenti ai tempi e all’evoluzione (o involuzione) della nostra società, facendo fiorire nuove consapevolezze, rabbia, bellezza, anarchia: non importa cosa volesse esprimere nel passato, ora tutto quel suo materiale esprime un discorso al passo coi tempi, terribile e affilato proprio come le leggi liberiste, solo di segno opposto.
Tutto ciò esalta, rende liberi e alti, profondamente sensibili. Tutto ciò è l’acme del messaggio floydiano, sviluppato in mezzo secolo di una creatività nata prima con Syd Barrett, poi abilmente rilevata proprio da Waters che l’ha maturata continuamente, certamente coadiuvato dall’inventiva degli altri tre membri. E dopo cinquant’anni esatti dallo storico concerto dell’aprile ’68 al Piper, in cui i Floyd si esibirono per la prima volta a Roma, Roger è tornato nella Città Eterna a mostrare ai fantasmi del passato imperiale e ai fondamenti della civiltà occidentale cosa ha elaborato dentro, cosa ha espresso nelle sue fucine cerebrali creative, cosa pensa ora quando, con una forza terrificante e all’alba di un’età estrema, continua a spiattellare al mondo una cristallinità che, se qualche imberbe imbecille musicante nostrano possedesse in minima parte, lo proietterebbe immediatamente negli spazi siderali dell’Arte. Ecco perché quindi, quando di fronte alla sua band sono stato più volte sull’onda della commozione più catartica, mi sono sentito preso da una bellissima consapevolezza di addio: i Pink Floyd ora sono davvero finiti, senza Waters a far tour mondiali coi suoi mastodontici meccanismi di arte, di spettacolo, di psichedelia e distopia, di anarchia e socialismo, dispensando brividi, emozioni, ironia, potenza, estremo gusto del contemporaneo, chi altri lo farà?
Addio Roger, addio da Roma, addio a un’epoca, addio all’estrema arte nata dalla psichedelia sciamanica, addio a ogni viscerale avversione ragionata e istintiva usata contro chi amministra il potere, addio a un mondo di teatro e di creatività. In queste ore post concerto sento in me del profondo dispiacere, ho un urgente bisogno di esprimere commiato a una bellissima tristezza lunare, al maestoso e stupendo delirio del volto e della silhouette, in posa floydiana, di Roger Waters.
Sandro Battisti
P.S.: A parte la locandina ufficiale in apertura, le foto del concerto pubblicate ai lati dell'articolo sono state scattate da Ksenja Laginja, con Sandro durante lo spettacolo: abbiamo preferito far corrispondere al suo vibrante pezzo le immagini reali e della serata che l'autore ha personalmente vissuto, anche nella loro povertà tecnica "da cellulare". Internet peraltro già pullula di articoli, foto e video relativi al monumentale tour di qualità sicuramente più elevata, quindi siamo certi che i lettori sapranno documentarsi abbondantemente. Per noi su Roger Waters, come in un concerto dei Pink Floyd, parola e immagine coincidono nella Battisti-vision.