“Sono le nove di una sera di novembre. Kathryn sta a casa dei nonni dopo la scuola. E’ sfuggita alla loro compagnia per giocare con il gatto della nonna di nome Lucy, nella veranda. Dopo qualche minuto di carezze spensierate il gatto si è ribellato a Kathryn, trapassando la pelle del suo dito indice sinistro con le sue zanne e sollevando tre strisce di pelle sul polso sinistro con le unghie della zampa sinistra.
Per reagire all’attacco di Lucy, Kathryn ha afferrato il gatto nel tentativo così di divincolarsi da lei. E’ stata abbastanza fortunata da afferrare il collare del gatto con tre dita della mano destra. Questo le ha permesso una presa sufficiente a contrastare il divincolarsi di Lucy tale da sbattere il gatto sul tappeto della veranda. Kathryn ha messo in bocca il dito ferito per fermare il dolore ed il sanguinamento. Si è poi accorta di essersi fatta pipì addosso, e contemporaneamente, ha tolto il dito dalla bocca”.
E fin qui… il titolo! Perché Kathryn sembra viva, ma è una scultura, anzi un’installazione: realizzata da Kristian Burford in argilla e resina con un realismo inquietante (un congegno nascosto la fa persino respirare!), la figura umana è vestita/denudata di abiti veri e ambientata in una stanza arredata di tutto punto. Notando il manifesto che la presentava, pensavo si trattasse di fotografie, o di una live performance, invece qui la tranche de vie rappresentata, visibile da diverse angolazioni, è però congelata nell’attimo, come un quadro di Hopper in 3D.
Cui prodest, mi chiede chi mi vede in mano il catalogo, qual è la visione artistica d’imitare la realtà con mimesi perfetta e assoluta? La visione non sta nell’oggetto “statua”, quanto… nella visione stessa, per questo non è casuale la scelta di farci osservare l’opera da una finestra nella stanza ricreata.
La visione di Burford (di Kathryn e delle altre sue installazioni, come Christopher, Rebecca e Melissa, di cui qui vedete alcune immagini) consiste proprio nel farci riflettere sul nostro stesso sguardo, sulla complicità-voyeurismo impliciti nella nostra contemplazione dell’opera in quanto “oggetto estetico”, quindi sensuale de facto (la componente erotica delle scene è simbolica ma sempre ben presente nei soggetti dell’artista australiano). Noi siamo “fuori”, assistiamo a una “scena” (la componente narrativa è nitida, anche se incompiuta), ma per farlo dobbiamo “volerlo”. Dobbiamo “intrudere” attivamente, spiare un po’ dal buco della serratura, come il James Stewart della Finestra sul Cortile; insomma, prendere consapevolezza della nostra volontà di guardare.
Che poi, in queste scene che appunto definivamo tranche de vie, consiste nel cercar di capire “cosa succede lì”, cos’è accaduto prima, qual è il “senso”: cosa fa quella ragazzina seminuda, languidamente abbandonata sul divano come un’adolescente provocante di Balthus? Si tocca, ci ammicca? E le polluzioni che senso hanno? Perdita del controllo? Se lei ci seduce nel suo gioco, di che gioco si tratta? O forse siamo noi che c’impicciamo delle sue faccende intime, del tutto riservate, perché ci attira “scoprirla”?
Stimolante doppio vincolo: non possiamo fruire dell’opera d’arte se non guardandola, ma se la guardiamo ci sentiamo intrusi in casa d’altri. E da quest’aporia non si esce “innocenti”.
L’altro aspetto interessante di questa visione-intrusione nel microcosmo di Kathryn sta nell’incompiutezza cui accennavamo sopra: si dirà che mi ripeto, ma mi sembra che il procedimento di Burford nel creare la sue situazioni narrative sia molto lynchiano. Infatti Burford costruisce, tramite la scena e l’associazione col testo-titolo introduttivo, un contesto realistico e narrativo: ci porta dentro una trama. Ma, come il perfido regista del Montana, ci nega una vera comprensione di questo contesto. Non sappiamo nulla di questa ragazza, del suo rapporto con l’ambiente, la casa dei nonni, nulla sulla sua psicologia e su cosa significhi per lei la situazione che ci viene descritta in dettaglio.
Il nostro cervello tende a cercare dei collegamenti, riempiendo i vuoti su cui non ha informazioni, come fa il computer interpolando due dati scollegati. Ma noi non abbiamo elementi per decodificare in maniera lineare i simboli che le scene di Burford ci presentano: il gatto, la polluzione, la famiglia, il corpo nudo, lo stato che sembra di trance… quindi ognuno di noi è spinto ad “interpretare”, dando un senso a ciò che non vien detto, ma sapendo che necessariamente quel senso sarà personale, arbitrario, non confermato da una narrazione logica, ancora una volta inevitabilmente “intrusione” concettuale in un mondo estraneo.
Né vedremo cosa accadrà dopo questa scena: quindi della tranche de vie cogliamo solo un attimo decontestualizzato, il cui continuum spazio temporale ci è negato. E in tale condizione, anche il perfetto realismo è privo di significato.
E in questa componente sottilmente inquietante possiamo leggere, in fondo, una visualizzazione degli sbandamenti percettivi e dell’angoscia filosofica di tanti romanzi di Philip Dick: ancora una volta, “la realtà non abita più qui”.
Kathryn si mostra alla galleria Magrorocca, in Largo Frà Paolo Bellintani,
Mario