“Suonala ancora, Sam”
(Humphrey Bogart, Casablanca)
C’è un diffuso timore in giro, spesso l’ho avvertito io stesso: che il jazz sia ormai un genere imbalsamato nel riconoscimento dello status di classici dei suoi principali protagonisti ma ormai un po’ un reperto del passato (“non so se sia davvero morto, ma di certo non manda un buon odore”, ne disse già Frank Zappa col suo noto sarcasmo). Il fatto che una manifestazione come JazzMI – accanto a diversi monumenti viventi, come il grandissimo Chick Corea, Ron Carter o l’Art Ensemble of Chicago – ospiti diversi tributi ad alcuni di quei protagonisti, sembrerebbe confermare il timore.
Per esempio, Judi Jackson ha omaggiato Nina Simone (mi dicono in maniera egregia, purtroppo io l’ho perso). Mercoledì 7 la cesenate Marianne Mirage (immagini ai lati) ha celebrato nientemeno che Billie Holiday: qui c’ero e posso confermare la statura dell’interprete, che ha saputo scavare nelle più ruvide rughe dell’immortale voce di Lady Day riportandola in vita sul palco del Teatro dell’Arte nel 2018 senza rimanere schiacciata da un modello così ingombrante, ottimamente spalleggiata dal pianista Gianluca Di Ienno e da un notevole contrabbassista come Paolino Della Porta. La giovane Mirage peraltro, tra una partecipazione a Sanremo, il brano per l’ottimo film di Genovese The Place e collaborazioni di pregio (dal supporting a Patti Smith ai Baustelle) ha dimostrato di avere una propria personalità artistica ben più solida di una pura “clone”, seppur di cotanta voce.
Venerdì 9 invece Biréli Lagrène (foto ai lati e sotto) sullo stesso palco ha pagato un altro tributo: quello al suo vecchio amico e compagno di tour (e dischi) Jaco Pastorius, di cui ha interpretato diversi temi, sia dalla discografia dei Weather Report che da quella solista, accompagnato da un efficacissimo trio di sax (tenore e soprano, Franck Wolf), tastiere (pianoforte, piano elettrico e synt, Jean-Yves Jung) e batteria (Jean-Marc Robin). Interpretazioni godibilissime e swinganti, che situerei in un’area di soul jazz a mezza via tra il Cannonball Adderley di Somethin’ Else e il Miles In The Sky alle soglie del jazz rock, ovviamente aggiornati ai tempi. E all’uso del basso elettrico, strumento di Jaco, in cui il chitarrista Lagrène ha dimostrato di essere un funambolo in grado di affrontare a testa alta la memoria di quello che fu definito “il Jimi Hendrix del basso”, che suonava le quattro corde a tale melodiosa velocità - che quando Joe Zawinul lo provinò per i Weather Report - sentendolo in cassetta si complimentò e gli chiese “non è che sai suonare anche il basso?”!
Insomma, il jazz del 2018 è solo una rilettura dei grandi che furono? Per rispondere a questa domanda, mi viene in aiuto il concetto espressomi tempo fa da Max Gasperini della Black Widow, fiero sostenitore del progressive, che definisce “la musica classica del XX secolo”. “Che cosa sono in fondo tutte queste tribute band che oggi girano riproponendo fedeli esecuzioni dei classici dei Genesis e Pink Floyd che furono? Sono l’equivalente delle orchestre sinfoniche che ogni anno eseguono le classiche partiture di Mozart o Beethoven”. Ecco, questa riflessione mi ha fatto vedere in una luce nuova anche il molto lavoro di reinterpretazione dei classici in ambito jazz e rock: non tanto un’assenza di idee nuove, ma un atto d’amore per le loro opere e il valore che hanno avuto per i loro epigoni, certo, ma anche il modo di mantenerli costantemente vivi nel corso del tempo e degli stili che evolvono.
Anche perché in effetti i linguaggi evolvono davvero, anche se forse in maniera meno turbolenta che nel mitico ’68: lo dimostrano a scanso d’ogni possibile dubbio anche i contemporanei concerti, nelle stesse due serate di cui sopra, della spumeggiante cantante francese Camille Betrault e dell’assai più statica trombettista Yazz Ahmed, timida e composta come un’educanda britannica sul palco ma originale nella miscela sonora. La prima, accompagnata dal classico trio piano/contrabbasso/batteria, dà vita a una performance frizzante anche sul piano dell’interpretazione gestuale, in cui si dimostra perfettamente padrona del palco, dei tempi e pure molto spiritosa. Oltre che molto carina e con talento da vendere che, da pianista classica qual nacque, le ha consentito di diventare una cantante duttilissima, in grado di fondere in un unico medley autenticamente jazzistico Bach, Bartok e Satie, ma poi anche Boris Vian, Bill Evans, Wayne Shorter e il mitico Coltrane di Giant Steps, in cui lei riproduce vocalmente nota per nota l’impervio assolo di John al sax tenore (il video su YouTube è quello che l’ha fatta notare ai discografici). Di qui il titolo del suo ultimo album, francesizzato in Pas de Géant (copertina in apertura).
Assai più fluttuanti e oniriche, nella quasi religiosa immobilità fisica dell’esecutrice, le sonorità di Yazz Ahmed (già collaboratrice dei Radiohead su The King of Limbs, Lee Scratch Perry e Swing Out Sister) che ha suonato dopo Lagrène accompagnata da un trio di giovanissimi bassista elettrico, batterista e vibrafonista che, col suono amplificato delle lamine, si avvicina un po’ a quello del Fender Rhodes del citato Jean-Yves Jung. Di origine anglo persiana, la Ahmed si ispira chiaramente alle sonorità da incantatori di serpenti della sua terra, talvolta inserendo nell’arrangiamento anche campionamenti vocali dei canti corali dei pescatori mediorientali. Allunga il suono della tromba (o del flicorno che alterna) con un sapiente impiego di echi e riverberi, traendo folate di venti desertici da un piccolo sintetizzatore alla sua sinistra. E avvolgendoci così in sonorità ipnotiche al crocevia fra il Miles elettrico di In A Silent Way e i Pink Floyd spiraliformi di Set The Controls For The Heart Of The Sun (anche il suo live è documentato dalle due foto qui ai lati).
Personalmente la trovo la scoperta più originale del festival finora: se condividete le riflessioni su jazz e psichedelia già contenute in diversi articoli su questo sito, o se coltivate il dubbio che il jazz non sappia più dar vita a sintesi innovative, il suo La Saboteuse del 2017 (copertina in apertura accanto a quella della Bertault), insieme alla sua versione remixed del 2018, è assolutamente il disco da procurarsi.
Mario G
P.S.: foto dei concerti scattate da Mario con lo smartphone durante i rispettivi concerti citati, ci scusiamo della qualità non perfetta delle immagini.