Non si può dire che Nicolas Winding Refn sia un regista che si accomoda sugli allori: appena conseguito un certo successo mainstream col suo film più accessibile – il noir Drive, suo debutto “americano”– laddove ci si aspettava che puntasse alle conferme, proponendo un nuovo noir con lo stesso protagonista, in realtà il regista torna a spiazzare con uno dei film più difficili e algidi della sua già acuminata carriera.
Con il quale infatti ha diviso inevitabilmente i pareri di critica e spettatori, a Cannes e nelle recensioni uscite un po’ dappertutto: Gomarasca su Nocturno di maggio lo definisce “il regista più importante del nuovo millennio. …Autore con la maiuscola di un cinema …che non ha paura di esplorare quei luoghi oscuri da cui non c’è ritorno né redenzione. Quel tipo di cinema che Tarantino vorrebbe tanto fare ma non può o non sa fare”.
Di rincalzo, il suo sodale Marco Cacioppo, sul numero di giugno della stessa rivista, nelle schede sui film in sala gli tributa quattro teschietti e l’etichetta di instant cult, restando colpito dal “disappunto con cui certa critica si è accanita conto Solo Dio Perdona” (finalmente un titolo tradotto normalmente!).
Infatti, basta gettare un occhio sul Trovacinema di Repubblica per scoprire che la media dei giudizi critici raccolti dal film di Refn nelle recensioni di alcune testate nazionali conta solo una misera stelletta: Nepoti di Repubblica riduce il film con sarcasmo a una “mamma che non ha mai amato veramente il figlio”, appunto il marmoreo Gosling (nella foto sopra a destra), che – secondo Escobar de l’Espresso – “ha due espressioni: una di fronte, l'altra di nuca. E non è il solo” (grosso sforzo di fantasia la citazione leoniana, eh?). Lui definisce il film sbrigativamente “una storiaccia buia”, mentre Alessandra Levantesi (La Stampa) rincara: “Il film gira a vuoto, assumendo manieristici toni pulp e lasciando un’impressione di compiaciuto esercizio di stile”.
Quest’ultima, volendo prendere le parti dei detrattori, è forse l’accusa in cui il film di Refn più credibilmente può incorrere agli occhi dei più. Ma il massacro non è finito, giacché si tratta addirittura di un “film imbarazzante, per chi l’ha fatto e per chi ha la sfortuna di vederlo”, secondo Crespi de l’Unità, ovvero un “Ignobile dramma poliziesco … che riempie lo schermo di disgustose atrocità” per Bertarelli del Giornale, che definisce Nicolas Winding Refl (sic) “l’ultimo trombone del cinema danese”, pur scivolando egli stesso sul nome dell’esecrato regista (chi sarà davvero il trombone, tra il giornalista e il regista?!).È più equilibrata (pur evidenziando luci e ombre) l’analisi di MyMovies a firma di Gabriele Niola (leggetela QUI), che io vi segnalo anche per i sottostanti pareri del pubblico “della rete” (come s’usa dire oggi): notate che si passa dalle 5 stelle di “Piu che un film un' opera d'arte” all’una di “Estetica ed Ermetica”. Espressione più emblematica di un film che divide non si poteva avere, no?
La mia impressione è che – come già accaduto per il connazionale von Trier, per il Lynch ermetico degli ultimi film (con cui Solo Dio Perdona condivide le torbide atmosfere rossastre), o per lo Jodorowsky cui Refn dedica il suo film – ci troviamo di fronte a uno di quei casi in cui contenuti non a tutti graditi (una tragedia di vendette inesorabili quasi alla Park Chan-wok con molta violenza grafica) si sposano a una forma così personale da risultare impermeabile a molti. Invece di festeggiare un Autore dalla poetica scomoda ma personalissima, ecco che, automaticamente, il kritiko che non capisce al volo abbandona subito la sventolata ambizione di scoprire nuove visioni e scatta l’esecrazione massimalista e velenosa, come avete letto sopra.
Che, quand’anche non si consideri SDP il miglior Refn, secondo me è comunque eccessiva e ingenerosa.
Non vi riassumo la trama che presumo già nota (ma la trovate comodamente riassunta ai link già riportati), dato che del film si parla da un po’ in giro: in fondo, potremmo definirla uno di quei revenge plot (con ombre edipiche) nella scia del pulp d’autore che va da Kill Bill a Old Boy. Refn sceglie però non l’accumulo e l’ipercinesi ma l’ellissi narrativa e (un po’ come Chan-wok in Stoker, o – appunto – Lynch) e non ci spiega i retroterra psicologici dei personaggi: perché Julian finge davanti alla madre (ottima Kristin Scott Thomas nel ruolo da Crudelia Demon, foto sopra a sinistra) un rapporto sentimentale con la cantante-prostituta (foto sopra a destra) e poi la scaccia malamente?
Perché il maturo poliziotto (nella foto sotto a sinistra che fronteggia Gosling), affettuoso in famiglia, si erge a spietato giustiziere della notte? Probabilmente si tratta una figura quasi mitologica, semidivina, come il One Eye di Valhalla Rising (2009) ma l’economia nei dialoghi e nelle caratterizzazioni (sua griffe, qui spinta alle soglie dell’astrazione) in effetti può disorientare più d’uno. Linguisticamente, il regista ricrea quei quadri statici, quasi teatrali e visivamente monocromatici, che avevano reso unico e fatto parlare di video art a proposito del suo Bronson (del 2008), pellicola che qui torna subito alla mente non fosse che per gli inquietanti corridoi (stavolta di lussuosi hotel di Bangkok invece che carcerari) ripresi in quel rosso e nero pastoso e saturo (che vedete nelle immagini riportate accanto all'articolo).
Raffredda l’azione che sarebbe il piatto forte della sua storia talvolta facendola accadere fuori campo o facendocene vedere gli effetti a cose fatte, oppure facendola esplodere fra lunghi silenzi e scene quasi immobili, di un ritualismo kabuki davvero orientale, creando dei crescendo di attesa, di suspence, quasi (quelli sì) da Sergio Leone, con effetti davvero disturbanti quando poi scatta la violenza estrema.
Curioso, fra i non pochi spunti di riflessione, come i suoi caratteristici silenzi nordeuropei si sposino benissimo con l’ambientazione e i ritualismi thailandesi in cui ha immerso la sua storia, che avrebbe benissimo potuto svolgersi a Los Angeles come a Copenhagen.
Noir, arti marziali orientali, western all’italiana, arte (visiva) concettuale… Insomma, vedetelo, Solo Dio Perdona, se avete amato Valhalla Rising e Bronson oltre a Drive. Magari per discuterlo, magari servirà pure rivederlo e ripensarci a freddo, ma vedetelo finché si trova ancora in qualche cinema.
Forse non diventerà il vostro film dell’anno ma è un cinema che osa (magari anche sbagliando) e va comunque sostenuto, se non vogliamo trovarci a lamentare il predominio dei blockbuster supereroistici hollywoodiani nei multisala.
Mario G