I personaggi e, ancora più spesso, le protagoniste di Tennesee Williams, sono individui costretti a "compensare alle crudeli deficienze della realtà con l'esercizio di un po' di immaginazione". La necessità di un'illusione, cioè la follia, nasce negli insoddisfatti, nei delusi, in coloro che la vita ha privato di un unico bene e, travolgendo l'equilibrio morale, stabilisce una nuova tensione di desiderio, istintivo, animale, febbrile – recita l’introduzione al volume Einaudi che raccoglie sotto il titolo I Blues quattro dei dodici atti unici scritti da Tennessee Williams negli anni '30. Tre (“La camera buia”, “Proibito”, "Una cena poco soddisfacente”) sono quelli che Phoebe Zeitgeist porta ora sulla scena dell'Elfo.
Il discorso teatrale e registico coerentemente portato avanti dai Phoebe Zeitgeist attraverso le regie di Giuseppe Isgrò, lungo testi di Ballard, Copi, Fassbinder (a sua volta grande fan del mélo del grande scrittore-drammaturgo americano) si appropria così di una nuova fonte testuale, appunto gli atti unici ambientati da Williams in un’America disastrata, quella della Grande Depressione degli anni ’30, in cui si agitano relitti umani che strillano la propria disperazione ripetendo a macchinetta – come fantocci di un grottesco luna park della tragedia – frasi fatte, (auto)compiacenti banalità quotidiane sulla cena e la cucina, sul lavoro, ricordi di fantasmatiche infanzie felici e impossibili sogni di riscatto venturo, in tragiche litanie... blues, appunto
Il blues dei bianchi precipitati giù dal “sogno americano” in una disperazione simile a quella che ai neri ispirò la più straziante e intensa delle musiche popolari. Quella di Hush, now… Don’t Explain di Billie Holiday, cantilenata dalla tredicenne prostituta inconsapevole Willie (Elena Russo Arman, nella foto a lato), pencolandosi sulle traversine di una ferrovia che non la potrà portare via dallo squallore in cui vive (“Proibito”).
Ma tutte le “signore” dei tre atti unici “cantano il blues”, anche quando non cantano una melodia ma sanno solo borbottare risposte stentate all’autorità (l’assistente sociale Margherita Ortolani), come la squallida madre de “La camera buia” (interpretata da Fabio Paroni, nella foto sopra qui a sinistra), che trascina un’esistenza stentata tra un marito disoccupato e impazzito e una figlia messa incinta da un compagno di scuola che poi ha sposato un’altra, probabilmente più adatta al suo rango (una tedesca protestante, non un’italiana cattolica e cenciosa). Figlia che vive chiusa nella camera buia del titolo, dove lui la va a trovare (a usare?), portando qualche briciola di cibo con cui va avanti questa “famiglia”.
E canta il blues la vecchia zia rimbambita, che una coppia di miserrimi pseudo piccolo borghesi (Paroni e Ortolani, la nipote dell'anziana e il di lei laido marito) vorrebbe eliminare “prima di doversi anche preoccupare della sua sepoltura”, a causa della “Cena poco soddisfacente” (da cui il titolo dell’atto) che cucina per loro, sempre interpretata dalla camaleontica Elena Russo Arman (foto qui a destra), da grottesca ragazzina a grottesca ottantenne curva e ciabattante in due minuti.
La follia, la creazione di un mondo immaginario come strategia di fuga da una realtà insopportabile: alla fine, il tema-guida della poetica teatrale di Phoebe Zeitgeist. E quale registro sceglie Isgrò per servirci la tragica materia? Il suo: scenografia minima, ai limiti dell’astrazione, una recitazione isterica in cui l’iperrealismo si spinge alle soglie di una macchietta dove però non resta nulla da ridere. Cioè lo stile dei suoi lavori che conosciamo, da Note per un collasso mentale a Preghiera, un atto osceno. Assecondato dal raggelamento della forma musicale del blues del Delta in scabri ossi di seppia sonori per chitarra elettrica di Alessandra Novaga, rielaborata e sputata elettronicamente sulla scena da Giovanni Isgrò.
Un registro ulteriormente spiazzante, perché di fronte ai testi dell’autore di Zoo di Vetro i percorsi lineari del nostro cervello ci porterebbero ad aspettarci o il mélo intimista, o – dati i temi – una sorta di “realismo sociale” alla Furore di Steinbeck/Ford: un quadro dolente e pietoso delle tragedie di un periodo di profonda crisi economica. Invece il grottesco ti impedisce l’empatia salvifica coi personaggi, in qualche modo ti distanzia dai loro drammi.
Invece la madre sfatta di Fabio Paroni, la ragazzina abusata e la vecchia che sparisce nel vento di Elena R. Arman sono sognatori perdenti e perduti, che neanche una lacrima di compassione riscatterà dall’abisso. E il distacco della messa in scena da una rappresentazione realistica della misera suburbana dell’America post ’29 può sì rendere più difficile l’empatia coi personaggi, ma potrebbe anche indurci a riflettere quanto poco manca alle tragedie di Tennessee Williams per essere credibili scorci della crisi che dall’America sta ancora soffiando su tutto il mondo, dal 2008 ad oggi.
Trovate i disperati di Williams/Isgrò a vagare nella loro “camera buia” alla sala Bausch dell'Elfo Puccini fino a domenica 16 febbraio.
Mario G
PS: Posthuman ringrazia Laila Pozzo, autrice delle due foto su fondo rétro di Fabio Paroni ed Elena R. Arman.