Era il settembre del 2021 quando Dune tornava al cinema dopo 37 lunghi anni. Anni nei quali il franchise aveva visto un avvicendarsi di serie-tv e videogiochi (menzione d’onore per il videogioco Dune del 1992) senza che però mai nessuno di questi prodotti multimediali riuscisse a declinare con efficacia le variegate anime dell’opera letteraria di Frank Herbert. Unici predecessori cinematografici? Il "non film" di Jodorowsky, un Dune realizzato ‘solo’ su un incredibile story board (di Moebius, NdR), un progetto tanto mitologico quanto irraggiungibile.
E poi il Dune di David Lynch (1984), pellicola tormentata, coacervo di tradimenti, speculazioni, tagli, edizioni apocrife. Ma anche un film culto, spericolato, densissimo e coraggioso.
Questo era il terroir emotivo e culturale nel quale Denis Villeneuve ha dovuto immergersi quando ha preso per mano Dune. Queste erano le sfide da affrontare nel portare sul grande schermo l’intraducibile epopea di Arrakis, dei misteri della Spezia, delle Bene Gesserit e dei Fremen.
Ed era sempre il settembre del 2021 quando affidavo il mio spasmo di inadeguatezza alle tormentate acque dell’etere. Perché? La prima parte del Dune di Villeneuve non mi aveva convinto. C’erano stranezze e incomprensioni. C’erano non detti che minacciavano la mia sospensione di incredulità. C’erano, insomma, dei problemi. Sono passati due anni e mezzo, Dune è tornato al cinema e finalmente ho capito cosa non avevo capito di Denis Villeneuve.
C’era un fraintendimento di fondo nel mio approccio a Dune, qualcosa che mi impediva di entrare in sintonia con la straordinaria potenza visiva di Villeneuve: cercavo riferimenti, cercavo lo spiegato nelle parole dei protagonisti, cercavo la realtà (a posteriori, posso dire ipo-realtà) utilizzando i miei canonici metri di giudizio cinematografici. Mi stupivo per alcune omissioni che dal mio punto di vista indebolivano la centralità di Arrakis (perché non enfatizzare l’importanza della Spezia nei viaggi spaziali? Perché non celebrare la sciamanica potenza strategica dei Mentat catalizzata dalla Spezia? Perché offuscarne così tutti i poteri?).
Sbagliavo. Sbagliavo perché sono le due pellicole di Dune a incarnare la vera essenza della Spezia (o Melange). Il Dune di Villeneuve è un viaggio psichedelico (non stupisce che Frank Herbert, l’autore del romanzo da cui Dune è tratto, abbia teorizzato il Melange dopo aver provato la psilocibina), un viaggio nel quale la potenza estetica sovrasta (e deve sovrastare) quella narrativa classica. Suoni e immagini, colori e inquadrature. È più importante quello che non viene detto di quello che i personaggi ci raccontano, è più fondante quello che vediamo di quello che ci viene spiegato. Lo è in tutte le ricercate (ed estreme) estetiche messe in campo dal regista.
Aprire la mente, assumere la stessa Acqua della Vita che Jessica (Rebecca Ferguson) e Paul (Timothée-superstar-Chalamet, NdR) suggono nel tentativo (riuscito) di diventare ciò che sono destinati a essere. Farlo e lasciare che l’occhio di Villeneuve si sovrapponga al nostro, che ci guidi verso quello che lui vuole farci vedere. La scommessa è proprio questa: affidarci al regista e alla sua sensibilità estetica. E non chiederci il perché di tutte le cose ma lasciare che il Melange di Villeneuve ci scorra attraverso catalizzando visioni. Lasciarlo fluire, lasciare che risuoni con gli archetipi che tutti noi inseguiamo nella ricerca dell’epica di quel larger than life che è alla base di tutti i miti. Il Prescelto, la sua riluttanza, l’accettazione di ciò che deve essere fatto a costo di sacrificare ciò a cui si tiene di più.
(Per approfondire le visioni di Villeneuve, vi suggeriamo di approfondire QUI l'opinione del regista stesso sulla preminenza del coté visivo rispetto a quello testuale, QUI l'esuberante ricerca architettonica delle location del film - v. foto a destra - e QUI la scelta di riprendere in b/n il pianeta degli Harkonnen attraverso una fotografia agli infrarossi - foto sotto a sinistra - NdR.)
Perciò nell’affresco di Villeneuve siamo noi quella Gilda Spaziale di cui poco si parla. Siamo noi a impregnarci di Melange, a viaggiare tra e dentro le sabbie di Arrakis in quel viaggio intra-planetario che raccoglie al suo interno l’importanza di un’intera galassia. Opporsi, permettere a una logica stringente di guidare ogni nostra percezione, è intossicarsi. È lasciar scorrere il veleno senza essere capaci di trasformarlo. Questo Dune è e deve essere puro istinto. L’istinto di emozioni che arrivano direttamente dalle immagini senza che nessun filtro intermedio debba provare a raccontarci cosa stiamo provando.
Ma proprio come succede a chi respira Spezia, dobbiamo accettare la dipendenza che deriva dall’assumere Melange costantemente. Non possiamo staccarci. Non possiamo smettere di respirare l’aria di Arrakis perché farlo vorrebbe dire intuire le imperfezioni periferiche (e a volte centrali) che rischiano di incrinare l’incredibile e maestoso affresco di Villeneuve.
N.B.: Posthuman offre il benvenuto allo scrittore di fantascienza di Reggio Emilia, premio Urania 2010 (per Il re nero), che con questa recensione fa il proprio debutto sul sito, auspicando di tornare presto ad ospitare altri suoi contributi.