"Angel I can see myself in your eyes
Angel won't you feel for me from your heart
Do return my heart to me
No don't insist I'm already hurt"
(Blonde Redhead, Elephant Woman)
"Topazio, donna di trentacinque anni, abbandona lavoro, famiglia e amicizie per gettarsi in una vita ai margini della legalità, tra prostituzione, violenza ed autodistruzione. Elephant Woman descrive lo sguardo cinico e disincantato di una donna che adotta la ribellione come gesto osceno alla mancanza di amore e alle desolanti prospettive di una vita conforme alle regole della moderna banalità". Letta la presentazione dello spettacolo (al Teatro I fino al 28 gennaio), ti aspetteresti una storia di deriva esistenziale pasoliniana.
Invece ti sbagli: l'odissea di Topazio (la statuaria attrice-cantante Silvia Lorenzo), nome da telenovela e pensieri da reality show, sta tutta nel pulp che dalla Gioventù Cannibale del '96 arriva a noi attraverso una serie di bad girl perlopiù cinematografiche, da Baise Moi a Springbreakers fino al (mediocre) Knock Knock.
La sua lingua è piatta e squallida come la tv, i pensieri che vomita in scena senza costrutto di una bambineria che non ha mai conosciuto sviluppo né morale, pieni di cartoni animati (già troppo colta la citazione di Miyazaki) e di canzonette pop, da Mina a Carmen Consoli allo Zecchino d'Oro (ne accenna una mitraglia in pochi secondi). La sua fuga da e verso il nulla insieme alla misteriosa amica/amante B. è costellata di delitti efferati, ma la sua "rivolta" è priva di coscienza, non esprime neppure autentica rabbia per il deserto affettivo in cui è cresciuta, perché neppure ha parole adatte a dirla.
Gli occhi di Topazio brillano solo di sogni da cubista, lavoro che fa in una discoteca in cui viene regolarmente abusata dal proprietario insieme a B. in patetici giochi s/m: come rubare una Porsche a un allupato imprenditoretto brianzolo, o fare la bella vita come barista in un casinò di St Vincent, che peraltro descrive con rapida e spietata efficacia come anch'io ho appena potuto osservare nel (penso analogo) deserto di Las Vegas, un incubo di sottoumanità sfatta e disperata, che fa tintinnare slot machine con occhio vacuo nel patetico ideale della cascata d'oro che non scroscerà mai, altro che James Bond e donne fatali.
Sogni che la donna racconta ai genitori lontani in una lettera che ci legge con voce chioccia da bambinetta di ritorno (anche un po' troppo da Sbirulino, se posso dire): è lì - proprio quando sei tentato di pensare che in fondo tutto questo s'è già visto, e più efficacemente, al cinema - che il testo lievita e il breve monologo (un'ora secca) ha la sua svolta ascendente. Capiamo che l'horror di Topazio inizia molto prima, con un abuso da parte del padre e un colpevole silenzio della madre.
Nell'Eldorado valdostano Topazio conosce il suo unico amore, un affascinante croupier che per poco la vizia con ristoranti e teatro, la sposa, subito dopo la ignora e poi la picchia selvaggiamente: il racconto, in cui l'attrice canta Angela di Tenco (con cui aveva aperto la scena) contorcendosi come sotto i colpi delle percosse subite secondo me è l'apice performativo dell'atto unico.
Il marito sarà la prima vittima di questa nuova "Sposa-Kill Bill". O l'ultima, dopo il discotecaro, l'industrialetto...? Chissà, nel suo racconto la linearità temporale sfugge. Ma è naturale, ce lo spiega lei stessa attraverso quella sua ingenua fissa dell'astronomia: noi pensiamo che il tempo proceda da un prima a un poi, prima c'è un uomo con la testa, poi arriva una fucilata e la testa esplode. Ma la fisica c'insegna che il tempo non è affatto lineare, che potrebbe anche essere reversibile. È solo "improbabile, non impossibile" che una testa esplosa si ricomponga a formare il volto distrutto dallo sparo. E l'orrore di Topazio è destinato a ripetersi, ancora e ancora, fra soprusi meschini e delitti insensati che non vendicheranno nulla, perché questo è un orrore banale da discoteca del sabato sera, senza neppure il riscatto d'esser tragedia.
In piedi, inquadrata in rettangoli di luce fredda sulla scena del Teatro I, nuda come lei, che veste solo un pantalone nero con bretelle come la Charlotte Rampling della danza di Salomè del Portiere di Notte, Silvia regge il monologo da sola, reggendo in mano una pistola (come vedete nelle foto ai lati) con cui ogni tanto minaccia noi seduti a guardarla, come nottambuli di una qualche discoteca del nulla padano. Si coprirà i (notevoli) seni con le mani a coppa solo durante gli applausi, quando l'attrice ritrova un pudore sconosciuto al personaggio. L'accompagna nel finale la canzone Elephant Woman dei Blonde Redhead, da cui il testo prende il titolo, anche se è evidente il riferimento al dramma dell'"uomo elefante" Joseph Merrick, da cui l'omonimo film di David Lynch (e la versione teatrale di Bernard Pomerance interpretata da Bowie nell'80): straziato nel fisico lui, deturpata nell'anima lei.
Il testo di Elephant Woman, ambientato a Roma nel 2007, è stato scritto e diretto da Andrea Gattinoni (e prodotto da Teatro Filodrammatici/Festival delle Colline Torniesi), che conta di farne il primo gradino della "trilogia 34", destinata a proseguire con L’argent, situato a Parigi nel 1973 e poi con Automat, che si svolgerà a Varsavia nel 1939, ossia sempre a 34 anni di distanza dal precedente.
Mario G