“Allen: Perché sei così infelice?
Hai la giovinezza, hai una ragazza, hai tutta la natura, hai la terra intera con cui giocare.
Peter: Lo so, lo so. (grugnisce) Ma non è un gioco.”
(Allen Ginsberg da I Settanta di Barry Miles)
Nel cinquantenario del mitico ’68 Antonio Syxty torna sul luogo, anzi sull’anno "del delitto" (dopo Blackout dell’anno scorso), sempre sulla scorta degli scritti di Nanni Balestrini: stavolta si tratta dei romanzi Vogliamo Tutto e Gli Invisibili, cui rispettivamente s’intitolano le due parti della lunga performance (circa due ore e mezza separate da intervallo di sopravvivenza per il pubblico “borghese”), in scena al Teatro Litta con il titolo di La Grande Rivolta (in cui l'autore li riunisce per Bompiani) fino al 7 luglio (in apertura la locandina psichedelica con foto d’epoca di Tano D’Amico).
Come in Blackout i testi sono esattamente quelli del libro e vengono declamati dagli otto giovanissimi attori-performer in scena (nelle foto ai lati, con e senza maschere da Anonymous che vedete nell'ultima foto in basso a destra) che si alternano a rotazione ai quattro microfoni senza ricerca di realismo interpretativo, nel senso che una narrazione autobiografica al maschile passa indifferentemente dalle voci dei tre maschi a quelle delle cinque ragazze, voci indistinte di un unico “collettivo” interpretativo che rende lo spirito movimentista dell’epoca in cui ogni voce prima che identità individuale è voce di “un compagno” del Movimento, che agisce al centro della platea del Litta svuotata dalle poltroncine e occupata solo da due grandi tavoli, in un frenetico andirivieni tra platea tavoli e palco, che saranno di volta in volta catena di montaggio, piazza di manifestazione, Cantinone occupato, tavolo di Questura per interrogatori e cella d’isolamento in carcere (noi spettatori borghesi stiamo su seggioline di plastica intorno allo spazio performativo).
Il nuovo lavoro anzi risale alle origini storiche del ’68, ricostruendo la grande migrazione negli anni ’50 di migliaia di figli di braccianti del Sud verso le fabbriche Fiat, VolksWagen o Ideal Standard del Nord per tramutarsi in operai e quindi in micce dell’imminente esplosione del Movimento che per breve tempo superò a sinistra sindacati e PCI riunendo operai, studenti e intellettuali nella storica rivendicazione situazionista quanto idealista del “vogliamo tutto”, scandito nelle manifestazioni e ripetuto ossessivamente in chiusura della prima parte che da quello slogan prende appunto il titolo. Fino all’evoluzione verso il terrorismo, della cui violenta repressione condotta con metodi cileni si occupa la seconda parte dello spettacolo.
Ne risulta un sorprendente spaccato del periodo più discusso della storia recente – mitizzato o deprecato a seconda delle posizioni ideologiche di chi ne parla – ma di cui chi non ha ricordi diretti (cioè i minori di anni 60 che osassero mai avventurarsi in teatro) – fatica a ricostruirsi un’idea precisa di quanto fosse abissalmente lontana la realtà dell’Italietta del ‘68 (quella di un comune operaio semi analfabeta, non quella degli Umberto Eco o delle Fernanda Pivano che davano del tu a Dylan e Ginsberg) dal nostro quotidiano attuale, in termini di costume, libertà individuali, indipendenza dei giovani, possibilità culturali e così via, e quindi che autentica rivoluzione globale quel periodo rappresentò a tutti i livelli.
Un mondo praticamente “alieno”, in cui un millennial oggi forse può provare a calarsi, oltre che dei testi di Balestrini (e di Barry Miles citato in apertura), sperimentando con l’aiuto dei new media l’installazione di realtà virtuale “368” (e il relativo videogioco narrativo "Monica") realizzata dagli studenti della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti per il progetto ’68 Reloaded, in cui è stata ricreata una situazione di occupazione universitaria (e successivo sgombero da parte della polizia) in cui come osservatori possiamo muoverci a 360 (pardon, 368!) gradi (immagini ai lati).
Tornando a La Grande Rivolta, sulla scarna scena (attrezzata da Claudio Intropido) c’è un gran movimento: e corrono su e giù e s’abbracciano e corrono (coreografati da Susanna Baccari) e gridano: non sempre con interpretazioni da nuovi Carmelo Bene al microfono, ma del resto son tutti molto giovani, proprio come quelli del ’68 vero: anche quelli non ce l’avevano l'esperienza alle spalle, mica avevano studiato tutti teoria politica prima di sognare la rivoluzione, no? Il loro frenetico vitalismo (la performance è sicuramente impegnativa anche dal punto di vista fisico), che a volte sembra un po’ slegato dal testo, rende percepibile quello di una società che allora era giovane e dinamica quanto naïf, in cui si poteva desiderare l’impossibile e si doveva “venir mossi nelle foto”, mentre ora tutto è disponibile simultaneamente per tutti ovunque e in forma tanto “social”, ma noi siamo invecchiati, abbiamo perso ogni dimensione realmente sociale e ci siamo rassegnati a vivere immobili in un regno in cui tutto è impossibile: intendo quelle cose come innovare, sperimentare nuove forme teatrali cinematografiche musicali o letterarie, quella roba lì che non frega a nessuno perché “non ha mercato, al massimo la possono fare gli americani”. Mentre nel ’68, quello vero, lo spirito di superamento dei limiti si manifestava anche attraverso performance ardite ancorché acerbe nella tecnica e nel metodo (erano dei virtuosi Syd Barrett e Captain Beefheart o i primi Amon Düül?).
A proposito di musica, ovviamente, nello spettacolo gran parata di monumentali canzoni d’epoca di Lennon-Simon-Garfunkel-Stones-Creedence-ProcolHarum-JethroTull-PopolVuh-Dylan-Bowie-Clapton-Cohen-Mina-Bongusto eccetera. Effetto nostalgia-canaglia garantito ma provate ad immaginare cosa doveva essere riuscire a comprarsi il primo giradischi allora: “it’s easy if you try…” (ve ne danno un'idea anche Assante e Ballanti nel loro saggio sulle controculture edito da Arcana nel 2017 o Barry Miles nel suo I Settanta, da cui proviene la citazione in apertura).
Nel complesso, un percorso – teatro, multimedialità, libri citati (e magari qualche cinerassegna a supporto) – che andrebbe proposto nelle scuole per far crescere un po’ di consapevolezza storica. E, chissà, per far rinascere qualche scintilla di quello spirito, ora che tanto servirebbe…
Mario G
PS: foto di scena di Alessandro Saletta (l'ordine di riproduzione non rispecchia rigorosamente la cronologia delle scene dello spettacolo), courtesy Teatro Litta