Un contributo dalla profondità e ricchezza inebriante, cui il filosofo catanese ci ha abituati da sempre, che Posthuman riproduce integralmente qui di seguito, per gentile concessione dell'autore e della testata il Manifesto (di cui sopra a sinistra vedete riprodotta la pagina originale).
Ve lo proponiamo nel caso vi sia sfuggita l'uscita del quotidiano, perché - come noterete - le argomentazioni che seguono sono molto interessanti per chiunque abbia a cuore la riflessione su come si profila il futuro di quella nebulosa che ancora chiamiamo "umanità", che si tratti di narrativa fantascientifica o di serie riflessioni antropologiche (i due mondi sono in realtà contigui); e pertanto... non potrebbero certo essere ignorate da un sito che inalbera il nome di posthuman.
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In due recenti volumi, «Intelligenze plurime» e «Il tramonto dell'uomo», Roberto Marchesini rimette in discussione la centralità dell'«homo sapiens», sottolineando come nella sfera del «bios» non vi siano gerarchie, ma specializzazioni relative ai contesti, non distanze qualitative tra l'umano e il resto del mondo animale, ma contiguità e differenze tra le specie, umani compresi
Il ventesimo secolo è stato (anche) il tempo in cui il paradigma umanistico che per millenni aveva sorretto la cultura e la vita dell'Occidente ha cominciato a mostrare le sue falle e le sue contraddizioni. Quel paradigma vitruviano - così mirabilmente espresso nella celebre incisione di Leonardo da Vinci e nelle pagine di Pico della Mirandola, e fondato sulla centralità assoluta dell'umano, sulla sua separazione da ogni altro ente e sull'autopoiesi, una virtualità illimitata che consentirebbe alla nostra specie di diventare tutto ciò che vuole - è progressivamente caduto. A poco valgono le nostalgie umanistiche, per quanto diversamente declinate: l'antroposfera non esiste - non è mai esistita - al di fuori di una relazione costante e dinamica con la teriosfera (gli altri animali), la tecnosfera (il cosiddetto mondo artificiale), la teosfera (la dimensione del sacro).
Concentriamoci sulla prima, la teriosfera, partendo da un dato evidente: la «animalità» non è una categoria. È palesemente fuorviante assimilare formiche, corvi o cavalli in una ideale contrapposizione con l'uomo, dal momento che moltissimi animali sono assai più vicini - sia geneticamente sia funzionalmente - alla specie umana che ad altre. Uno scimpanzé o un cane sono molto più «parenti» dell'Homo sapiens che delle api, dei molluschi, delle bisce. Nel ricorrente paragone distintivo fra la nostra specie e gli «altri animali» si può dunque leggere un sintomo, al tempo stesso, di presunzione e di insicurezza.
La vita si esprime in una molteplicità di forme, tutte legate tra loro e tutte distinte, e non ha senso l'ossessione comparatistica secondo la quale, ogni volta che si discute di intelligenza animale, essa viene intesa come una categoria unitaria, da confrontare sempre e soltanto con l'intelligenza umana, quasi che quest'ultima costituisse il parametro su cui misurare ogni altra abilità cognitiva.
Tanto radicati sono questi stereotipi che una prospettiva etologica e biologica più rigorosa non potrà non condurre a quella che Roberto Marchesini ha definito nel suo Intelligenze plurime. Manuale di scienze cognitive animali (uscito per Perdisa l'anno scorso) una nuova «rivoluzione copernicana». Scrive Marchesini: «Noi uomini avremo la sorpresa di abitare una piccola e remota regione cognitiva che naturalmente ha delle contiguità, delle vicinanze e persino delle sovrapposizioni con quella delle altre specie».
Muovere verso un antropodecentramento della conoscenza significa, semplicemente, capire meglio la vita, in senso biologico come in senso etico. Sono molte le forme in cui si esprime l'antropocentrismo, dall'antropomorfismo, che tende ad assimilare la cognitività animale a quella umana, alla reificazione, la quale nega che negli animali non umani si dia intelligenza. In entrambi i casi viene ignorato il fatto che l'intelligenza, per citare ancora Marchesini, è «una funzione biologica che - come la sensorialità, l'anatomia degli arti, la digestione - si presenta nell'universo animale in modo plurale con una molteplicità di vocazioni e attitudini non sovrapponibili tra loro».
Nel bìos, insomma, non ci sono gerarchie ma solo specializzazioni relative ai contesti, non distanze qualitative tra l'umano e il resto del mondo animale ma contiguità e differenze tra le diverse specie, umani compresi. L'opposizione umano/animale si situa dentro un cerchio comune e più ampio, insieme biologico e tecnologico. In una prospettiva antropodecentrata ed etologica mostrano la loro insufficienza sia il comportamentismo riduzionistico sia il funzionalismo computazionale, i quali ignorano entrambi il fatto che l'umano non possiede e non abita un corpo ma è corporeità complessa e adattata all'ambiente.
Otto forme di intelligenza
Questa plurale unità dell'essere vivente, obiettivo al quale Marchesini lavora da anni, trova in Intelligenze plurime e nel successivo, recentissimo, Il tramonto dell'uomo. La prospettiva post-umanista (Dedalo 2009) un rigoroso punto d'approdo. La pluralità cognitiva si esplica per Marchesini in otto diverse forme di intelligenza: sociale, enigmistica, orientativa, astrattiva, operativa, referenziale, comunicativa, riflessiva.
L'intelligenza sociale, o relazionale, è la capacità di pensare con il gruppo/branco e a favore della sua sopravvivenza; l'intelligenza solutiva è invece capace di risolvere problemi in solitudine; quella mappale è in grado di visualizzare mentalmente i contesti spazio-temporali mediante coordinate astronomiche, segnaletiche paesaggistiche e autoreferenziali (come i feromoni o le urine); l'intelligenza concettuale astrae dalla realtà i concetti generali mediante operazioni di mappatura e orientamento interiori; quella pragmatica piega il mondo alla proprie esigenze di utilizzo; l'intelligenza mimetica è in grado di imparare dalla relazione con membri del gruppo, della specie a cui si appartiene o anche di altre specie; quella dialogica consente di scambiare contenuti con altri conspecifici. E infine l'intelligenza riflessiva o introspettiva «riguarda la capacità di fare riferimento alla mente come mondo interno e pertanto allo stato mentale vissuto, alla propria biografia, all'approccio simpatetico all'altro e all'approccio empatico all'altro».
Alla stregua di oggetti
Rispetto alle critiche che vengono rivolte alla scienza di essere la maggiore responsabile della vessazione delle altre specie, Marchesini ribatte «al contrario che è grazie alla scienza se l'uomo contemporaneo ha saputo uscire dagli antropocentrismi (sia per analogia che per distanziamento) iniziando così a guardare con umiltà e interesse al grande patrimonio di diversità che ci offre l'universo delle altre specie animali».
Se questo è vero, non va però sottovalutato il fatto che i laboratori scientifici e farmacologici costituiscono tuttora luoghi di tortura per moltissimi animali. Orrori praticati non solo in nome degli affari ma anche «per il progresso delle scienze». E invece la vivisezione è una delle pratiche più antiscientifiche che ci siano, come argomenta Stefano Cagno in Imparare dagli animali (Perdisa 2009), un libro che tocca le questioni più urgenti del rapporto umano/animale, dall'ingegneria genetica alla clonazione, dal vegetarianesimo alla caccia, dalla pet-therapy ai diritti degli animali - un argomento, quest'ultimo, di cui da diversi anni si occupa con vigore il filosofo statunitense Tom Regan, di cui Sonda ha da poco ripubblicato il volume Gabbie vuote.
Cagno sostiene che la vivisezione sia «un metodo di ricerca arcaico» che «si basa sul concetto di "simile", privo di valore scientifico», tanto da aver «già causato danni alla salute umana» poiché «non esiste alcuna somiglianza tra le malattie che insorgono spontaneamente negli esseri umani e quelle indotte artificialmente negli animali». La vivisezione non solo «rappresenta una violazione dei diritti animali», i quali vengono «trattati alla stregua di oggetti» ma si presta anche «a qualsiasi forma di abuso e di sadismo, (...) anticamera per una sperimentazione sull'uomo priva di regole». Questo grave «spreco di risorse economiche (...) permette facili carriere universitarie» e soprattutto consente «alle industrie farmaceutiche di inondare il mercato con nuovi prodotti».
Pretese autarchiche
Tra quelle che Eugenio Mazzarella ha voluto chiamare con una bella definizione le «scienze della nuova umiltà» e che ci dovrebbero indurre a un ripensamento sempre più profondo sulla inaccettabilità del dolore inferto ad altre specie in nome della superiorità di quella umana, si pone ormai con un suo statuto ben preciso la zooantropologia, il cui «assunto di base sta nel considerare l'umano come un processo non come uno stato», per riprendere ancora una volta le parole di Roberto Marchesini nel libro, firmato insieme a Sabrina Tonutti Manuale di zooantropologia (Meltemi 2007). La zooantropologia respinge le pretese tipiche dell'umano rispetto al mondo delle altre specie: la pretesa distintiva che vede nella cultura un esclusivo possesso della nostra specie: la pretesa autarchica che ci renderebbe autonomi dal resto del mondo vivente; la pretesa separativa che fa dei caratteri umani il vertice della vita e della sua evoluzione.
In questa prospettiva, e come Marchesini ha argomentato nel Tramonto dell'uomo, il corpo umano non costituisce una fortezza chiusa che da sé si genera e a sé sola attinge la vita ma è un progetto dialogico e mondano. Il corpo non è dotazione che si possiede, dimora che si abita, interfaccia strumentale ma è l'opera aperta nella quale convergono i processi metabolici, percettivi, emotivi, relazionali, tecnologici che insieme definiscono e fanno la nostra specie. Un corpo che si è, non che si ha. Un corpo che è tempo germinato dalle memorie e dai geni, costituito di quella palese transitorietà che si chiama finitudine e morte. Bìos e téchne non sono due, «ogni tecnologia è di fatto una biotecnologia».
Un pianeta in pericolo
Pensare la tecnologia in modo strumentale ed esteriore rispetto al cammino evolutivo della nostra specie ci rende incapaci di comprenderne l'intrinseca potenza oltre che l'evidente pervasività nella vita contemporanea: «Gli atteggiamenti iperumanisti (la tecnoscienza come dominio dell'uomo sul mondo) e transumanisti (la tecnoscienza come salvezza dell'uomo dal mondo) - osserva Marchesini - non mettono in discussione il concetto di uomo-essenza come centro gravitazionale intorno a cui tutto ruota e verso cui tutto dev'essere riferito».
Il rischio è dunque l'(auto)distruzione dell'umano e con esso del pianeta. Anche per contrastare tale pericolo la prospettiva postumana assegna all'Homo sapiens caratteri e funzioni specifici - che certamente possiede, come ogni altra forma di vita - che però rinuncino all'illusione epistemologicamente errata e pragmaticamente suicida della centralità ontologica. «Quindi parliamo di antropodecentrismo come di una progressione che costruisce i predicati umani contaminandosi sempre di più con il mondo e rendendo il mondo partecipe del proprio progetto».
Con la prospettiva zooantropologica e postumanistica declina la concezione dell'animale «buono da mangiare», propria delle filosofie e pratiche più antropocentriche, le quali vedono nelle altre specie solo delle risorse e degli strumenti per quella umana; ma anche dell'animale solo «buono da pensare» di molta eccellente ricerca antropologica e storica che analizza la sfera delle altre specie nelle sue espressioni e funzioni simboliche, tecnologiche, estetiche, sacrali, culturali, come specchio fedele o deformante - in ogni caso - dell'umano. E si giunge, invece, all'animale «buono da essere», a ciò che noi stessi siamo nella complessità e nella estrema varietà della natura.
Alberto Giovanni Biuso
(fonte: il Manifesto, 30 ottobre 2009)