“Un fantasma è come l’essenza di una persona.
Se lasci una personalità piena ad essiccare al sole,
ciò che resta sono le spoglie di un’emozione”.
Da queste parole parte Guillermo Del Toro per definire - genericamente - l’entità soprannaturale protagonista dell’ultimo horror per il quale il regista messicano ha svolto il suo ormai piuttosto consolidato ruolo di padrino e produttore esecutivo: La Madre (locandina italiana in apertura, trailer QUI), attualmente in sala, di Andres Muschietti nasce da uno short movie realizzato dallo stesso giovane esordiente nel 2008 in stretta collaborazione con la sorella Barbara, co-autrice del soggetto e della sceneggiatura anche nella versione estesa che da quell’originale corto ha preso vita a distanza di quasi cinque anni, grazie proprio all’interesse e alla curiosità artistica di Del Toro.
Una vera e propria factory horrorifica di più che soddisfacente impatto al botteghino, quella che l’autore di Hellboy ha imbastito negli ultimi anni della sua carriera: si pensi all’ansiogeno The Orphanage, che fu in grado di macinare record sul record al botteghino spagnolo confermando la salute florida dell’horror iberico o piuttosto al sorprendente risultato al box-office americano portato a casa proprio dal film di Muschietti in tempi recenti.
Un’opera prima di solida fattura mainstream, dall’impianto e dalla costruzione registica robusti sì ma non del tutto consapevoli e soddisfacenti: nonostante si sforzi molto nel contenere gli eccessi e nell’agire in sottrazione in merito alle derive più telefonate del genere, Mama (questo il titolo originale) non arriva mai a lambire la semplicità sfiorata e carezzevole dell’horror orientale e nipponico cui s’ispira, con risultati il più delle volte annacquati che nulla hanno di quella singolare e difficilmente imitabile forza lacerante.Vorrebbe avere la stringata e illuminante immediatezza di un brillante haiku, nel generare terrore e balzi sulla poltrona, ma finisce con l’affidarsi al solito impianto da canzone libera che lo spettatore medio conosce già a memoria e che dinanzi agli occhi dei più smaliziati si fa carico addirittura del peccato mortale di adagiarsi su schemi paurosamente già visti. Una colpa non facilmente giustificabile, per un film dell’orrore che si proponga di perseguire seriamente determinate ambizioni e che non intenda buttarla più o meno prematuramente in farsa.
Se da un lato il modello più sfacciato e sbandierato è chiaramente Dark Water dell’alfiere del silent horror giapponese Hideo Nakata, dall’altro si tratta di un ispirarsi molto vago e per grandi linee, in cui alla sospensione sussurrata e tesa come una corda di violino si sostituisce un’estetica dello spavento falsamente sottotraccia ma in realtà tonitruante. Il demone del titolo, che dopo aver perso fatalmente il proprio pargolo chiama a sé due bambine che vivranno in simbiosi con lei immerse nella natura più oscura, ispira infatti sincero timore solo quando rimane saggiamente taciuto. Ma non appena irrompe sulla scena, urlato e scarmigliato, la pesante digitalizzazione dell’effetto visivo (di cui QUI gustate un'interessante making of, NdR) spazza via buona parte della sospensione dell’incredulità precedentemente maturata dallo spettatore. A causa, soprattutto, delle sue fattezze posticce e fin troppo alienate dalla computer graphic, suggestive solo nella definizione che ne fornisce il regista (“Un Modigliani lasciato a marcire”) ma in realtà ben poco accattivanti, simili a certe soluzioni grafiche presenti proprio in una delle regie di Del Toro, Il labirinto del fauno (che però, a scanso di equivoci, era opera di tutt’altro spessore…).
Il principale motivo d’interesse del film di Muschietti è dunque il dualismo che si instaura in automatico sulla scena tra la madre mostruosa delle due bambine e quella putativa che esse vengono ad assumere non appena il giovane e aitante zio le prende in affidamento: la compagna di lui, rocker dai capelli corvini, che si ritrova suo malgrado in una situazione di spiacevolissima disfunzionalità familiare nel momento in cui accetta l’accudimento delle piccole Victoria e Lily e che è interpretata da una Jessica Chastain (nella foto in alto a destra e qui sotto a sinistra), tanto per cambiare eccezionale e magnetica, dotata di un fascino e una pregnanza attoriale davvero superiori, perfetta e magnificamente a suo agio anche in un film di genere malfermo e assolutamente dimenticabile.
E allora ecco arrivare la progressiva mutazione da recalcitrante ragazzaccia a mater dolorosa accogliente e sempre più affettuosa; una metamorfosi che giunge pienamente a compimento in quel finale di sicuro ridondante, che chiudendo il cerchio cerca maldestramente di far fare alla storia il triplo salto mortale in chiave affettiva, con una punta di credibilità emotiva conclusiva tremendamente fuori luogo, (specie) in un horror.
La madre strizza insomma l’occhio a Medea, alle dilaniate madri del mito classico, a certe atmosfere e topos che rimandano a The Others, sembra giocare sapientemente sulla distorsione dell’elemento fiabesco, per lo meno nella prima parte, salvo poi approdare a esiti decisamente più tradizionali e rivedibili.
Davide Stanzione