Dopo lo storico articolo del 2014 sulle sotterranee connessioni fra new wave e progressive mi sono dedicato a colmare le mie notevoli lacune in quest’ultimo campo. Scoprendo che quello che fu a lungo esecrato in quanto rock “pomposo e autoindulgente” è pian piano risorto a nuova vita in un vasto ventaglio di evoluzioni sonore anche della scena del rock alternativo recente, benché in forme (prevedibilmente) rinnovate e non solo come revival degli immortali King Crimson o Van Der Graaf Generator (il cui ultimo Do Not Disturb, uscito in chiusura di 2016, è ancora una volta disco piacevolissimo di una band che peraltro non ha mai deluso).
Per esempio, l’omonimo album Glory Of The Supervenient (Overdub Recordings) del batterista milanese Andrea Bruzzone si muove nell’ambito di un raffinato post rock (e cos’è poi il famoso post rock, se non una prosecuzione del prog aggiornata ai tempi?), in cui a una batteria e un basso suonati si affiancano suoni di piano, synt, vibrafono e chitarre tutti realizzati in digitale (come virtual instruments) dal batterista stesso. Sono 11 brani, tutti strumentali, che ammiccano apertamente a un jazz rock anni ’70 (un apparente trio drums-bass-vibes), pur non mancando lampi hard e scattanti incursioni nel drum’n’bass.
Album affascinante e molto (forse fin troppo) pensato, non lontano dalle fredde atmosfere siderali dei nuovi Tangerine Dream britannici Teeth Of The Sea (a lato la cover del loro fantascientifico Master del 2013), cui manca – punto debole comune a molto post rock secondo me – forse solo quella punta di calore umano che di solito garantisce la voce, o almeno una più ampia rosa di musicisti “reali”.
Calore che invece abbonda in Waitin’ 4 The Dawn, quarto album dei valdostani Movin’ K, che di voci ne intrecciano ben due (più vari ospiti vocali, chitarristici e un sax): quelle del tastierista e leader Francesco “K” Epiro e quella femminile e assai duttile di Maria Rita Briganti, che nulla ha da invidiare a quelle di parecchie cantanti di cosiddetto R’n’B milionarie. Il loro suono ne risulta così molto ricco e vario… forse fin troppo! Tecnicamente preparato come una vera prog band, il quintetto spazia in realtà da un hard commerciale (diciamo zona Scorpions?) a quelli che a me suonano “scivoloni” verso un power pop melodico (o AOR) dalle parti dei Toto di Hold The Line o dei Jefferson Starship di Jane, per intenderci.
In questo suono (sin troppo) alla ricerca dell’impatto frontale, con quelle chitarre ribattute dalle tastiere da primi ’80, va comunque loro riconosciuta una ricchezza sonora questa sì davvero progressive (come l’impianto da concept album su un viaggio spirituale in tre atti), con speziature che comprendono anche le percussioni etno, il funk alla Maceo Parker e persino qualche imprevedibile interludio jazzistico. Però, più che agli ambiziosi concept album, io i Movin’ K li vedo più candidati alla rotazione di una FM AOR americana: se si trovassero là avrebbero sicuramente più chance di guadagnare che qui con un album come questo (distr. CD Baby).
Se siete alla ricerca di atmosfere più compatte, ancorché aperte verso un afflato cosmico, potreste trovarne traccia nel post rock dei Bridgend, progetto del chitarrista romano Andrea Zacchia, che s’ispira ai Mogway come ai Marillion e – stando al press kit – nientemeno che ai Pink Floyd, anche se dal suo sound strumentale di chitarra-basso-batteria, sostenuti da solenni synt, io sento emergere piuttosto qualche atmosfera fra l’Eno berlinese (alla V2 Schneider più magniloquente?) e gli U2 del fuoco indimenticabile.
Il suo Rebis – su Orange Park Records, ancora un concept in tre atti su un viaggio iniziatico verso l’isola del titolo – è un disco anche piacevole, purtroppo però affossato dagli interludi recitati da tre attori teatrali, che ci sciorinano perle di un’agghiacciante retorica marzulliana (tipo “…Ma è un sogno o è la realtà? E se le illusioni sono l’unica cosa reale, allora l’isola esiste”), parto della penna di tale Lorenzo Polonio, la cui carriera letteraria per il sottoscritto finisce qui.
Sono ascolti che mi fanno sorgere la domanda: chissà come mai tanto suono anni ’80, che del prog non è certo stata la golden age (per quanto i Genesis abbiano sbancato nel '78 con Follow You, Follow Me e gli Yes ancora nell'83 con Owner of a Lonely Heart), fra questi gruppi che altresì al progressive fanno esplicito riferimento nelle proprie presentazioni. Sarà forse che sono io un orecchio ormai stagionato (The End Of An Ear?) e ancorato ai vecchi leoni del prog originario degli anni ’70 citato in apertura, ma a chi cerca atmosfere sontuose e magniloquenti mi sento di consigliare piuttosto un album come Masters and Following, doppio cd dei Presence, trio squisitamente prog sinfonico guidato dalla voce sovrumana di Sophya Baccini, accompagnata da Sergio Casamassima alla chitarra ed Enrico Iglio alle percussioni (ospiti Sergio Quagliarella alla batteria e Mino Berlano al basso). Fra brani originali, cover di Sparks e Judas Priest, best of del gruppo dal vivo e omaggi verdiani (il secondo disco è un live e parzialmente accompagnato da un’orchestra sinfonica), il team Baccini offre tutta la grandeur progressive che potete sognare se la sintesi espressiva non è mai stata un vostro cruccio: dagli ELP ai Goblin, dai Deep Purple al doom più gonfio (come la goticissima copertina qui a fianco vi suggerisce).
Un’operazione tentata sul versante metal anche dai Dimmu Borgir, che il prossimo 14 aprile pubblicano (per Nuclear Blast) Forces Of The Northern Night, doppio dvd contenente il loro leggendario show tenutosi ad Oslo con la Norwegian Radio Orchestra e coro (incappucciato), nonché l’esibizione al Wacken Open Air 2012, con quasi cento musicisti sul palco! In effetti, va riconosciuto al metal d’essere stato (nel bene e nel male) il più fiero continuatore dell’estetica dei brani lunghi e articolati, con numerosi cambi di tempo e dell’assolo strumentale virtuosistico, marchio di fabbrica del progressive nei ’70 poi rinnegato dal punk.
Il sottoscritto, pur dopo diversi sinceri tentativi, confessa il limite di non reggere il growl per più di 6 o 7 minuti, ma se voi siete più aperti va detto che le orchestrazioni dei black metaller norvegesi sono interessanti: complessivamente improntate al più tonante wagnerismo, in realtà sfoggiano qua e là glissando e dissonanze più tipiche della musica contemporanea. Provate a dargli un ascolto, metal headz.
Alla fine, la mia personale palma d’ascolto va però a un altro album edito da Black Widow nel tardo 2016 (che per questo conquista alla sua cupa foresta nebbiosa l’onore della copertina-manifesto dell’articolo intero): si tratta di II dei Landskap, formazione inglese che suona come un Jim Morrison redivivo accompagnato dai Black Sabbath (li vedete nella foto a sinistra). E la loro recensione potrebbe già finire qui. Ah, ma allora (vi sento commentare sotto sotto) è praticamente un disco di Danzig: in un certo senso potrebbe starci, ma i Landskap sono meno tozzi e più… appunto, progressivi, sì. Sentite quell’organo, non c’è molto Jon Lord insieme a Ray Manzarek nel loro suono?
In realtà, per me è la possente voce baritonale di Jake Harding che rende l’ascolto dell’album un’emozione che lo rende sempre troppo breve, ma ora provate a seguite la lunga Lazy Sundae, sesta e conclusiva traccia del disco, tenuta (purtroppo) interamente strumentale: non è un fantastico intreccio di The End e Planet Caravan, cui manca solo quel vibrante cantato da brividi per incoronarla appunto nuova The End?
Questo breve viaggio fra le prospettive del prog all’alba del 2017 termina qui, ma senza pretese di completezza, beninteso: ci siamo limitati ad alcuni album recenti e anteprime della scena alternativa, italiana e non. Ma sicuramente là fuori ce n’è un sacco di esperimenti di ampliamento delle frontiere musicali in odor di progressive da scoprire. Segnalateceli, specie se ispirati a tematiche fantascientifiche: potrebbero finire in un saggio attualmente in fase di scrittura proprio sulle commistioni fra rock e immaginario fantastico.
Mario G