“Spostandoci dal suono Stooges di Detroit, ci stavamo appassionando al garage americano. Cap e Rat amavano il prog, ma tutti ascoltavamo Doors,
Seeds e Shadows of Knight…”
(Dave Vanian dei Damned, dal booklet di The Black Album, anno 1980)
“Il bello di essere in quattro a scrivere i brani in una band era che tutti portavano influenze diverse. Rat apprezzava i Gong, per esempio, e ricordo che qualcuno una volta mi disse che i gruppi punk più interessanti erano quelli che non ascoltavano necessariamente musica punk.”
(Captain Sensible, ibidem)
Quel giorno, i Damned se ne andavano a far benzina all’auto quand’ecco che al distributore t’incontrano nientepopodimenoche… Lol Coxhill, sopraffino sassofonista della floreale scena di Canterbury (Caravan, Kevin Ayers, Hugh Hopper), da anni stimato jazzista a fianco di colossi della musica cerebrale come Evan Parker, Anthony Braxton e Steve Lacy, tanto per dire. Per nulla schiacciati da timore reverenziale o disprezzo generazionale, Vanian e soci gli chiedono di suonare con loro e, detto fatto, l’illustre sopranista va in studio dove i giovani punk stanno registrando Music For Pleasure e lì illumina di sprazzi free il brano conclusivo, You Know.
Son cose che accadono dai benzinai inglesi (se succedeva da noi, magari incontravano Cristiano Malgioglio e la storia del rock oggi non sarebbe la stessa!). Ma, del resto, produttore del secondo album dei Damned era Nick Mason, cioè il batterista dei Pink Floyd (loro avrebbero voluto Syd Barrett, già sul lato scuro della luna da mo’), mica uno con la spilla da balia piantata nella narice.
Che giorno era, quello? Le storie non lo precisano (anche il benzinaio dello storico meeting rimarrà ignoto), ma si era nel settembre del ’77, l’anno in cui Sex Pistols e Clash incendiavano Albione e facevano venire i capelli dritti a chi allora aveva 16 anni (ancor più ai loro genitori), mentre chi ne aveva già 25 s’immalinconiva sul crepuscolo di Genesis, Deep Purple e Led Zeppelin.
Lo stesso anno in cui usciva anche Rattus Norvegicus, debut album degli Stranglers, un grande gruppo della new wave che, a differenza di molti colleghi dell’epoca, sapeva suonare davvero bene: un suono ricco di tastiere, che riusciva ad evocare anzitutto l’organo Farfisa di Manzarek dei Doors e, più in generale, l’ala più inquieta e meno barocca del progressive, diciamo alla Can/Faust (non a caso ritenuti precursori di molta cold wave a venire).
Ma allora… qui tocca ripensare un po’ a questa Storia del Rock in cui noi, nutriti dalla retorica punk del “never trust a hippy”, pensavamo ai mondi di psichedelia/progressive e punk/wave (Police, Talking Heads, Cure) come a due chiese ideologicamente contrapposte. Invece, i cortocircuiti fra le musiche prima e dopo il punk shock del ’77 erano ben più numerosi di quanto sembrasse, ed è proprio questa zona d’ombra che proveremo a illuminare ora.
Si parte sempre lì, nel luglio ’77, quando John Lydon (il Rotten dei Pistols), invitato a proporre una scaletta di brani per un programma di Capital Radio (il Tommy Vance Show), vi inserisce un paio di canzoni tratte da Nadir’s Big Chance di Peter Hammill ("The Institute Of Mental Health, Burning" e "Nobody's Business"), album del ‘75 che in effetti, non solo contiene per la prima volta la parola “punk” accostata alla musica in Inghilterra ("the beefy punk songs”, scrive Hammill nelle note di copertina) ma, ascoltato senza pregiudizi, ha già in sé tutto il sound dei Sex Pistols (addirittura le cadenze vocali strascicate di Rotten/Lydon!), solo suonato da gente che… sapeva suonare!
Incredibile, quindi l’alfiere del punk in realtà stimava anche l’odiato prog?! Pare di sì, a giudicare dall’Album (o Compact Disc, o Cassette) da lui licenziato nel 1986 coi PIL (a sinistra cover del loro debut album), prodotto da Bill Laswell (ex Material, che a loro volta provenivano dai progressivi Gong) e suonato da un’impensabile accolita di musicisti virtuosi di tutte le epoche: da Tony Wlilliams (jazz drummer milesdavisiano) e Ginger Baker dei Cream alla batteria, a Steve Vai (chitarrista zappiano, idolo dei metallari tecnicisti), da Ryuichi Sakamoto alle tastiere a Ravi Shankar, Nicky Skopelitis, Bernard Fowler, Malachi Favors dell’Art Ensemble of Chicago al contrabbasso… gente da disco intellettuale di Peter Gabriel, Laurie Anderson o Eno & Byrne, altro che punk di strada!
Del resto, si sarebbe incaricato il dark dei Bauhaus e dei Christian Death/Rozz Williams di confermare quanto il canto “tragico” di Hammill, oltre che per Lydon, fosse un’influenza importante per tutto il goth sound degli ‘80, se avete dubbi ascoltatevi il suo album appena uscito (Other World, cover qui a lato) senza VDGG ma col chitarrista Gary Lucas (Captain Beefheart, Jeff Buckley, John Zorn etc.): oscuro, sperimentale, strepitoso a 65 anni!
Influenza pari a quella monumentale di David Bowie, su cui ora ci soffermiamo un attimo: che la sua trilogia berlinese sia la pietra angolare della new wave (dagli Ultravox ai Joy Division, dai Bauhaus agli Psychedelic Furs) lo sanno anche i sassi, ma… avevate mai riflettuto su chi ci suonava dentro, accanto al biondo dandy (un esordiente nei remoti ’60)? Già, proprio Brian Eno: tastierista dei Roxy Music, inventore dell’ambient nei ’70, in studio coi Genesis nel ’75 (per The Lamb Lies Down On Broadway) e con lui Robert Fripp, chitarrista dei progressivi King Crimson, poi sperimentatore degli orizzonti dell’elettronica e dei Revox con Eno (con David Byrne nella foto a sinistra).
Il quale diventa l’eminenza grigia della new wave producendo l’antologia No New York (debutto di Lydia Lunch, Arto Lindsay e James White), indi i primi album di Ultravox e Devo, la trilogia chiave dei Talking Heads (importante per il crossover etno wave quanto quella bowiana per la dark/cold wave), fino agli U2 della maturità. Ma… anche ‘sti Eno e Fripp, non venivano dal passato?!
E, produttore per produttore, chi è l’altra eminenza grigia del suono post ’77, se non uno che può vantarsi d’aver dato alla luce album di New York Dolls (il debut omonimo del ’75 e reunion del 2009), Tubes (Remote Control, ’78), Patti Smith (Wave, ’79), Tom Robinson Band (TRB 2, ’79), Psychedelic Furs (Forever Now, ‘82), Lords of the New Church (suona il synt su un brano di Is Nothing Sacred?, ‘83), Xtc (Skylarking, ‘86), fino ai Bad Religion del 2000 (The New America)? Guarda un po’, un certo Todd Rundgren (nella foto a destra): altro golden boy del prog anni ’70, dalla sterminata discografia a nome proprio o con gli Utopia.
“Non mi interessa, odio i Pink Floyd”, disse Bob al suo manager in taxi.
“Penso che sarebbe una buona cosa per la tua carriera, dovresti almeno pensarci”, insisteva quello.
Alla fine, il manager l’ebbe vinta e Bob (Geldof, allora cantante dei new waver Boomtown Rats) interpretò Pink nel film di Alan Parker su The Wall dei Pink Floyd come il suo manager gli caldeggiava. L’aneddoto è narrato da Roger Waters nel libro omonimo dedicato al cult movie e firmato da Gerald Scarfe, l’illustratore che ne disegnò le parti animate. La fonte è sicura: il tassista era… il fratello di Waters!
Certo, The Wall - spesso accusato d’essere un mammuth sonoro e pietra tombale della band - non è proprio un album wave, ma comunque mostra dei Pink Floyd diversissimi da ciò che potevano aspettarsi i fan di The Dark Side Of The Moon e Wish You Were Here, canzoni brevi, pochi assoli e sinfonismi...
All’epoca, lo tsunami punk/new wave non lasciò indenne praticamente nessuna vecchia gloria del rock: da Lou Reed (accreditato precursore del punk coi Velvet Underground) a Neil Young, Paul McCartney, gli Who e così via: tutti costretti a cercare nuove strade per rimanere “attuali” (sovente dando vita ai peggiori dischi delle rispettive carriere). Naturale, “If you can’t beat ‘em, join ‘em” (come titolava un disco del cool jazzista Gerry Mulligan, piegatosi a tributare omaggio ai Beatles e alla “new wave beat” nei primi ’60).
Con i Kraftwerk a far da ponte fra kraut e wave, oltre a Eno, Fripp e Bowie, quelli che ne escono meglio sono il Peter Gabriel solista, il rinato Iggy Pop, altro padrino del punk (The Idiot, New Values, Zombie Birdhouse son dischi spesso criticati dagli integralisti del garage punk ma avercene così!), anche Alice Cooper: i suoi dischi “wave” degli ’80 non sono amati dai fan né più eseguiti dal vivo, ma per esempio oggi gli italiani Mugshots prodotti dal suo fidato chitarrista Dick Wagner han pescato una cover dal suo DaDa (proprio un album di quella fase), e un altro titolo come Special Forces non deve nulla a gente come Billy Idol o i Cars, per dire.
Ma… avevate mai notato che – seppure in misura più contenuta – si è verificato anche qualche movimento in direzione inversa? Prendiamo i Japan: il cantante David Sylvian, uno dei più intelligenti dandy bowieani della new wave britannica, da solista diventerà sempre più rarefatto e ambient, collaborando intensamente ancora una volta con Fripp; il tastierista Richard Barbieri si unirà stabilmente a Steven Wilson nei Porcupine Tree, gruppo (notevolissimo) spiccatamente neo prog, pure omaggiato da collaborazioni frippiane.
Ma provate anche a recuperare un album dimenticato come Pop Eyes della cantante/polistrumentista Danielle Dax (qui a lato in una tribale esibizione live) sorta di “David Byrne/Laurie Anderson strafiga” in quota alla new wave: quel suo primo disco registrato nell’82 tutto da sola è molto più ricercato nelle sonorità della media dei debutti inglesi del periodo e ancor oggi suona originale e non datato, con quella sofisticata miscela di jazz, elettronica, orientalismi ed etnicismi vari: mixato ad esempio con gli italiani d’oggi Al Doum & the Faryds (notevolissimi) non vi accorgerete del passaggio, come pure se di mezzo ci passasse un… diciamo, Robert Wyatt solista (che, en passant, nell’81 tastiereggiava con gli Scritti Politti).
Gli inossidabili space rocker Hawkwind – forse per non essere mai stati delle superstar del prog – reggono il passaggio agli ’80 meglio di di Floyd e Genesis, con album comunque solidi come Quark, Strangeness And Charm (del ’77, l’anno del punk), PXR5 del ’79 (sentite Death Trap e dite se non potrebbe essere una canzone dei Damned!), o Levitation (dell’80, anche qui torna Ginger Baker dei Cream), con cui pavimentano la strada al Julian Cope degli anni ’90. Il quale a sua volta inizia in piena new wave prefigurando il brit pop coi Teardrop Explodes, poi da solista scopre Syd Barrett e Kevin Ayers e dà vita (con Echo & the Bunnymen e in parte i Sound) al revival psichedelico di metà ’80; quindi apre i ’90 cercando la fusione con la techno da rave (Peggy Suicide) e, a partire dal seguente Jeovahkill,si tuffa alla riscoperta del kraut rock, che lo porterà ad incidere (lui che è un cantante duttilissimo) persino alcuni dischi di musica “da trip” interamente strumentali!
Ma gli Hawkwind, pur senza esser mai stati delle star, sono veramente un gruppo-crocevia delle trasformazioni epocali del priodo ’77-’79: se i loro fantascientifici dischi dell’epoca non sanno di polvere nemmeno accostati a quelli degli Ultravox, la band inglese costituisce al contempo un ponte molto stretto con l’esplosione della cosiddetta New Wave Of British Heavy Metal, dato che è dalle loro fila che esce Lemmy per fondare i Motörhead (titolo appunto dell’ultima canzone composta da Lemmy per gli Hawkwind, in seguito coverizzata anche dai Primal Scream), che diventeranno una leggenda per gli headbanger di tutto il mondo.
Eppure, anche la loro prima formazione (quella del disco uscito col titolo di On Parole solo nel ’79) comprendeva in realtà un chitarrista psichedelico: Larry Wallis, dei Pink Fairies. Mentre, va detto, Lemmy ha a sua volta collaborato al terzo disco dei Damned (Machine Gun Etiquette) e scritto per i Ramones la canzone omonima. Nella foto sopra a destra lo vedete con Wendy O. Williams dei punk Plasmatics (per la cover di Stand By Your Man di Tammy Wynette (!). Vi basta?
“Ci definivano metal perché avevamo i capelli lunghi,
se no ci avrebbero chiamati punk”.
(Lemmy)
Abbiamo aperto un altro capitolo che potrebbe portarci molto lontano: le connessioni punk-metal, le altre due chiese storicamente agli antipodi, dove il metal figura come il continuatore dell’eredità hard/prog dei ’70 (brani e non solo capelli lunghi lunghi, costruzioni complesse, assoli di chitarra e virtuosismo tecnico). Tutte cose appunto aborrite all’epoca dai wavers: intorno all’80 – complici divisioni di provenienza sociale/culturale e/o orientamenti politici – se in una strada di Milano s’incontravano gruppi di punk e metallari c’era più probabilità che finisse in rissa che non in melting pot sonoro.
Eppure un punk innamorato dell’horror come Glenn Danzig dà vita con i Misfits proprio a questa corrente (l’horror punk, appunto) e poi, passato a carriera solista come Danzig, si dedica ad un gothic metal che si potrebbe descrivere sbrigativamente come dei Black Sabbath moderni in cui canta Jim Morrison. Ma anche un reuccio dell’hardcore punk più impegnato come Henry Rollins (canta scrive, recita e fa reading poetici, oltre ad aver partecipato ad Evilive, proprio dei Misfits), lasciati i Black Flag e alla guida della sua Rollins Band rallenta i ritmi e appesantisce i suoni in direzione di quello che gli etichettatori definiscono alternative metal, collaborando in seguito anche con campioni del genere come i (grandissimi) Tool, Les Claypol dei Primus e persino col pioniere dell’hard Toni Iommi-of-the-Sabbath.
Percorso analogo seguono i Killing Joke, i cui album più recenti (dopo le sperimentazioni orchestrali del leader Jaz Coleman), almeno da Hosannas from the Basements of Hell fanno tesoro delle influenze che i Joke stessi coi primi album – pilastri della new wave inglese – hanno avuto sulla scena industrial metal che è seguita negli anni ’90: Ministry, Helmet, Nine Inch Nails e Marilyn Manson su tutti, ma anche i “progressivi” Tool sopracitati.
“Ho visto i Kiss alla Wembley Arena, sono stati impressionanti e mi hanno fatto riflettere su cosa abbiamo trovato di tanto eccitante per anni nei New York Dolls…”
(Julian Cope)
Qual è il collante che lega dunque le due turbolente famiglie? Il glam, senza dubbio: magari non quello chic di Bowie e Roxy Music, ma quello più r’n’r e “puttanesco” dei New York Dolls, antesignani del punk ma gran amici dei finlandesi Hanoi Rocks, che stanno in quota al glam metal e saranno riveriti pure dai Guns N’Roses: i recenti album solisti di Michael Monroe (ex Hanoi Rocks) e Dregen (ex Hellacopters, ora suo chitarrista) ne sono l’esemplificazione suprema.
Una linea (o un eye-liner?!) che, se abbandoniamo ancora una volta gli ideologismi collega l’hard rock anni ’70 di Alice Cooper e poi appunto dei Kiss al nu metal servito in salsa horrorista da White Zombie (dopo gli inizi noise punk) e Rob Zombie solista (oggi anche affermato regista horror, qui a destra coi suoi minacciosi accoliti), quindi dalla superstar Marilyn Manson, fino agli svedesi Ghost, esplosi più recentemente (sotto a sinistra il loro Papa Emeritus). Ma passando per una seminale band… italiana!
Già, i Death SS, oggi vere star dei festival metal internazionali e nei primi ’80 veri precursori di un crossover punk-metal estremamente teatrale nel senso del grand guignol e dell’impiego in concerto di scenografie, costumi e performance satanico horroristi. Destinato a fare scuola nelle caverne del goth: non solo nel look del Manson, ma anche per esempio degli americani Ripper, o dei più noti Cradle Of Filth, britannici autori di un black metal dagli sfondi sinfonici lontanamente prog, con i quali ha collaborato anche Valor Kand dei darkissimi Christian Death, che evidentemente una contrapposizione “diabolica” fra dark wave e goth metal non la sentiva proprio, visto che avrebbe diviso il palco anche con un’altra band italiana di quell’area, i romani Theatres Des Vampires.
Insomma, facce pittate, sangue finto e mostri da film della Hammer saldano lo storico fronte fra punk e metal? Pare quella la strada, se un’etichetta italiana – la genovese Black Widow – ha definito il proprio sound caratteristico cercando una moderna fusione fra progressive e space degli anni ’70, dark degli ’80 e metal, soprattutto doom, dai ’90 al presente. Miscela che emerge alla perfezione in album come il recente e sabbathiano Cycle Of Pain dei Blue Dawn (cover in apertura dell'articolo) in cui fa bella mostra di sé una notevole cover di In Every Dream Home A Heartache dei Roxy Music, guarda caso già coverizzata nel ’95 anche da Rozz Williams con Gitane Demone nell’omonimo album post Christian Death, una bella confluenza degli elementi di cui s’è parlato finora, no?
La stessa label, per l’immediato futuro si propone di far sbocciare i precedentemente citati Mugshots (anche loro nati horror rocker con face paint molto voodoo alla Baron Samedi, come vedete nella foto live a sinistra), nell’album che seguirà il mini Love, Lust And Revenge (prodotto da Dick Wagner, chitarrista di Alice Cooper e Lou Reed nei ’70), come una sorta di incrocio fra i già nominati Stranglers e i Blue Öyster Cult, leggenda di un hard dark prog che dagli anni ’70 in qua non ha smesso d’irradiare luce oscura sulle band amanti delle atmosfere lovecraftiane. È il suono che rappresenta il marchio di fabbrica dell’etichetta genovese, in cui sembrano confluire tutti i discorsi sviluppati fin qui.
Quel giorno che Dario Argento passeggiava per le Alpi svizzere e incontrò un famoso Bill…
(ricostruzione di pura fantasia)
Stupiti che tutto ciò accada in Italia? E sempre all’ombra di facce ghignanti e minacciose maschere da serial killer? Non dovremmo esserlo: nonostante noi rockettari guardiamo sempre al di là dei confini nazionali, il nostro panorama musicale ci offrirebbe parecchi spunti su cui riflettere: non solo, come si diceva, i Death SS han fatto più di dieci anni prima quel che poi ha reso famosi Rob Zombie e Marilyn Manson. Ma anche che è italiano il primo album in cui convivono fianco a fianco musicisti di tre generazioni diverse, e si tratta – tu guarda – proprio di una colonna sonora horror: ricordate Phenomena (locandina a destra) di Dario Argento? Il thriller con Jennifer Connelly che dialogava con gli insetti esce nell’85.
Argento per le musiche aveva già usato Morricone, Gaslini, i Goblin, Keith Emerson (per Inferno, qui a sinistra) in seguito si sarebbe avvalso anche di Brian Eno (Opera), ma qui… ripescatelo (e occhio, cd e vinile presentano scalette un po’ diverse e non tutto poi è finito davvero nel film): ci sono Simonetti e (parte dei) Goblin, insieme a Bill Wyman (sì, il bassista dei Rolling Stones!) con Terry Taylor (chitarrista dei di lui protetti Tucky Buzzard) e Simon Boswell (uno specialista delle colonne sonore da paura), per i brani strumentali, accanto ad Iron Maiden, Motörhead ed Andi Sexgang (cantante dei teatrali Sex Gang Children) che per i brani cantati, realizzando in nome degli incubi argentiani una fusione di prog, elettronica, metal e dark wave che personalmente non ricordo in nessun altro disco precedente.
Sì, ci sono un sacco di percorsi tutti da ripensare in questa storia del rock…
Mario G
(*) riferimento a “Funk pop a roll beats up my soul” degli Xtc (Mummer, 1983)