The Neon Demon, ultimo film di Nicolas Winding Refn in sala dall’8 giugno per Koch Media/Midnight Facory, è un film nato per dividere. Cosa che ha fatto puntualmente, a partire dalle anteprime a Cannes alle infastidite recensioni apparse su parecchia stampa italiana per l’algido ermetismo che iberna in una fotografia controllatissima, algida e patinata, un impianto tutt’altro che di facile presa per il pubblico. Freddo e concettuale un po’ come il precursore Solo Dio Perdona, un po' come un’installazaione di video art, tanto più che qui ci troviamo al centro del reame patinato per antonomasia, ossia nel mondo dell’alta moda di Los Angeles (frequentato dal regista per dirigere alcuni spot pubblicitari che devono avergli fornito spunti sull’ambiente).
Si potrebbe anche dire – come per un Lynch o un von Trier (con cui Refn qui ha più d’un punto in comune) – che se la stampa italiana si schiera a sparar scempiaggini (che poi son sempre quelle, regista disturbato, misogino e via banalizzando) cominciano a fiutarsi i segnali del capolavoro, ma non abbandoniamoci alle polemiche ed entriamo nel vivo della… carne filmica (la metafora qui è particolarmente pregnante).
“Un ambiente intossicante”, dice il regista danese in un’intervista a Nocturno (che invece loda il film senza riserve), aggiungendo che gli omaggi iconografici a Suspiria di Argento (i quadri monocromatici saturi in rosso e blu, specie nell’inseguimento coi coltelli nella villa nell'immagine più sotto) sono legati al fatto che, ipse dixit, è “il film influenzato dalla cocaina per eccellenza”. Tutti questi riferimenti alla droga ci fanno intuire che Refn – uno che già non trasuda ottimismo nella propria filmografia – non deve avere un’idea granché positiva dell’ambiente fashion.
Infatti il film ritrae un mondo di jene, vampiresche come approccio all'esistenza più che per i lunghi canini, emotivamente (oltre che esteticamente) anoressiche per quanto carenate extra lusso dai rispettivi chirurghi estetici, sfoggiati dalle annoiate modelle come gioielli (“sei stata dal carrozziere?”, tuba una rivolta all’altra coll’abituale distacco, in uno degli ironici, odiosi dialoghi sul nulla che ben esprimono la loro “anima”). Oggetti inanimati da ammirare, come ben simboleggia la scena della performance di shibari (qui a destra) cui tutte le protagoniste del film assistono a una festa trendy poco dopo l'arrivo di Jesse nella Mecca della moda a stelle e strisce.
Fra le jene però un giorno piomba dalla profonda provincia americana Jesse (Elle Fanning), sedicenne dalla bellezza angelica e acqua e sapone quanto quella delle sue colleghe/rivali è costruita e sintetica. Già al primo colloquio in agenzia le viene vaticinato quel che accadrà: sin da subito, naturalmente e senza sforzo, Jesse diventa la nuova star dello ambiente, venendo fotografata dallo snobbassimo fotografo-superstar (l’insopportabile Desmond Harrington, sotto a destra con jesse sul set candido) e scelta dallo stilista per chiudere in bellezza la sua prossima sfilata (nel film, il momento più video art, in cui la protagonista attraversa i prismi luminosi che vedete nella foto qui a sinistra e bacia il proprio riflesso, novella Narciso).
La ragazza, solo apparentemente ingenua e sprovveduta, occupa il proprio trono in cima al reame dell’effimero con l’inossidabile fermezza di chi sa di essere a ciò e a null’altro destinata. Consapevole di essere inetta (“non so cantare, ballare, recitare, non so fare niente. Ma sono carina”). Jesse in effetti non è nulla, è priva d’identità, anche di desideri che non siano incarnare il desiderio stesso della bellezza perfetta di chi le sta intorno.
Ma è pure già freddamente consapevole del proprio ruolo e del fatto che ormai sono le altre modelle, pur più esperte, a sognare di essere come lei e non il contrario. Come è consapevole di “essere pericolosa”, come le diceva la madre (scomparsa). Ma Jesse è pericolosa per gli altri o per se stessa? O per tutti?
Vergine e disinteressata alla seduzione, sia dell’amico Dean (Karl Glusman) sia dell’amica truccatrice Ruby (la bravissima Jena Malone, nomen omen). Il rifiuto dello slancio passionale di quest’ultima – che sfoga il desiderio frustrato in una croneberghiana scena di lesbo necrofilia (sotto a sinistra) – sarà dunque la porta verso la svolta horror del film e la finale katastrofé di questo misterioso essere, che incarna il desiderio allo stato puro. E che, in quanto tale – come diceva Lacan – non può mai essere appieno posseduto da chi lo desidera. Neanche divorandolo.
Non vi sveliamo oltre sulle sorprese finali della trama, ma vi segnaliamo che sull’interpretazione lacaniana dei simbolismi apparentemente così astratti del film c’è peraltro un profondo articolo sul sito Le parole e le cose: lo leggete QUI, anche se lo capirete sicuramente meglio dopo un rapido seminario di psicanalisi e filosofia alla Sorbona (!).
Perché Jess è un personaggio-simbolo: assolutamente bidimensionale come l’immagine-moda che incarna, è nulla sul piano umano come al contempo è l’assoluto su quello del concetto (la bellezza appunto) che rappresenta in quanto immagine.
E, sul piano dell’immagine, il film di Refn anche al nostro occhio offre moltissimo: la fotografia raffinatamente piatta, tutta di superfici orizzontali, levigate e seducenti di Natasha Braier rende difficile scegliere solo qualche immagine per illustrare l’articolo, mentre la techno del fidato Cliff Martinez contribuisce notevolmente all’atmosfera glaciale dell'impianto. Irto di rimandi, oltre ad Argento e al citato Cronenberg (viene in mente il Crash del desiderio malato ma anche il sottovalutato Maps To The Stars ambientato nella stessa L.A. divistica), balenano citazioni di Schrader (il puma nel motel è forse un omaggio al suo Bacio della Pantera? O simboleggia la ferocia della bellezza di Jesse, il suo essere pericolosa?), secondo me anche di Tim Burton (Jena Malone nel fiabesco giardino carroliano subito dopo i misfatti); magari, anche indirettamente, del Mulholland Drive di Lynch o del The Canyons sempre di Schrader, che entrambi vivisezionano la società dello spettacolo con simile programmatica spietatezza.
Certo, The Neon Demon è un film conceptual: la leggibilità della trama essenzialmente sul piano del simbolo anziché su quello dell’empatia con i drammi di un protagonista della vicenda (verso cui in genere ci guida la sceneggiatura hollywoodiana), oltre ad un finale spiazzante (proprio sui titoli di coda), rendono il film tutt’altro che immediatamente fruibile, a dispetto degli affondi pulp: a tutta prima, anch’io ho avuto quella strana sensazione d’essere stato “preso in giro da un’intelligenza superiore” (definizione che coniai anni fa per definire il fascino ermetico che avevano su di me i film di Greenaway).
Sicuramente risulterà irritante per molti, come al contempo chi ne ha penetrato l’impianto grida al capolavoro.
Vedetelo comunque. La forza cinematografica di Refn ne fa uno dei film dell’anno, che vale comunque la sfida. Insieme al suo esatto opposto, l'intimista e raffinatamente empatico Julieta di Almodóvar, nuovo calibrato lavoro di scrittura dei sentimenti sulla scorta dei racconti di Alice Munro: due film parimenti riusciti, ora in sala contemporaneamente in Italia, che curiosamente hanno in comune una ricercata fotografia che predilige i quadri composti di azzurro e rosso molto saturi, mentre per il resto non potrebbero essere più opposti!
Mario G