“Il Suo mondo, con i suoi tesori, è sempre davanti ai miei occhi. E io devo solo piantargli sopra un nome, come quando pianto il coltello in una gallina. È così che so che Dio esiste.”
(la Giovane Donna, dal testo di David Harrower)
Immaginate un tempo remoto. Quanto remoto? Non lo sappiamo, ma così remoto che le cose non avevano ancora un nome. Tu guardavi un albero e dicevi “albero”. E da quel momento quella cosa aveva un nome.
Immaginate un villaggio rurale. Dove? Non sappiamo neanche questo. Nel mondo, prima e fuori da tutto.
Ai margini del Villaggio vivono uno stalliere, noto come Pony William, e la sua fresca, giovane moglie, detta semplicemente Donna per l’intero testo. Come se non avesse ancora ricevuto un nome.
Ed elementare, fatta di azioni primordiali e di parole minime, è la vita che conducono i due agricoltori-allevatori alla loro fattoria (resa astrattamente dall’essenziale scenografia di Guido Burganza con uno spazio nero e vuoto sormontato da grandi lampade fredde, qualche cassapanca e cornici vuote di porte sul nulla).
Una bella donna, la Donna, ma disertata dal marito che, invece di dormire con lei, passa le notti nella stalla coi cavalli. Perché lo fa? Non si sa, il comportamento non ha ancora avuto un nome. Lei non sa nominarlo, quindi non capisce e basta.
Un giorno William manda la “sua Donna” dal mugnaio Gilbert a molare del grano e lì accade qualcosa. Lei inizialmente affronta l’uomo, su cui il Villaggio sparge maldicenze (si dice abbia ucciso la propria moglie e il figlio) e sospetti di stregoneria, schermandosi di una coltre (resa da una vera coperta sul capo) di paura e pregiudizio. Sembra un The Village di Shyamalan ma con il Male dentro il paese anziché fuori.
Male? Certo che però il mugnaio Gilbert non fa nulla di stregonesco, a parte saper scrivere e leggere i libri che ha in casa. Le fa solo delle domande, parla con lei, e così facendo dà nomi alle cose che si agitano nella mente di lei.
Le dice che suo marito dorme nella stalla perché lì se la fa “con la figlia di Robertson”.
È vero? Lei una notte sente provenire dalla stalla in cui ha il divieto di entrare dei “nitriti”, che sono assai più delle risate di una voce femminile. Ma “la figlia di Robertson” non si vede mai in scena. Forse è solo nella testa di lei?
Non lo sapremo. Però ora Gilbert spinge la donna a scrivere il proprio nome: lei con fatica lo fa, lui lo legge e lo trova bellissimo. Noi non lo sapremo mai, ma ora anche lei ha un nome.
Forse Gilbert con questa “magia” le ha dato un’identità al di là di essere “una donna forte, adatta a lavorare”, come la definisce suo marito William?
Quel che sappiamo è che ora la Donna torna dal “pericoloso” mugnaio col marito: William e Gilbert si fronteggiano mentre lei dorme dopo un solo sorso di whysky. Quando si sveglia, insieme al mugnaio farà rotolare una grossa pietra da mola sul capanno dove il marito è andato a pisciare, uccidendolo.
Si è compiuto un “giallo passionale” alla Chabrol in salsa Lynch? È una possibile interpretazione, ma il testo non ce ne dà conferma.
Forse lei ha solo “eliminato” il marito perché in quel mondo astratto aveva assolto al proprio compito (ma quale?) e andava rimosso per fare spazio a un nuovo quadro di vita. Con il mugnaio che “le ha dato un nome”, quindi un’identità, e ha mostrato di saper leggere dentro di lei (come nei propri libri) meglio del marito? È un’altra possibile interpretazione, diciamo proto-femminista, ma Syxty ci mette in guardia da ogni lettura logico-narrativa: è una nostra esigenza mettere in fila i fatti con dei nessi causali, ma il testo non avvalora una strada più di qualsiasi altra.
Le azioni avvengono perché avvengono, senza una visibile ratio logica. Come in una favola, come nel mito, dove nessuno spiega ad esempio perché, nel cosmico nulla, a un certo punto un’anatra si posi, deponga un uovo e da questo nasca il mondo (l’esempio proviene dal Kalevala, epopea mitologica finlandese) o perché Apollo ordini a un uomo di non procreare prole (dall’Edipo Re di Sofocle).
Accadono come in un rituale sciamanico, come in quella specie di rito della fertilità che Donna compie muta, di spalle rispetto al pubblico, denudandosi fino alla cintola e muovendo un ramo con un sacchetto da cui si sparge della farina (nella foto qui a destra la preparazione al rito). Del resto, sapete, la radice indoeuropea della parola “sciamano” (sa-) significa “sapere”: lo sciamano insomma è “l’uomo che sa”. Non dev’essere un caso…
Come in un mito, un rito o come “quadri sulla vita possibile di tutti noi. Quadri che galleggiano nell’aria”, evoca il regista ellittico quanto l’autore del testo (David Harrower), che va in scena ora al Litta per la prima volta in Italia, ma dal ’95 è ormai considerato un classico della drammaturgia inglese contemporanea. Testo ellittico anche per i commentatori inglesi, peraltro, che lo definiscono ora un thriller with an old-fashioned love triangle at its heart ora una metafora dell’evoluzione dalla memoria orale alla cultura scritta.
Syxty ne rispetta in toto l’indeterminatezza, evitando di “interpretare” naturalisticamente ciò che il testo non dice. Seguendo le suggestioni visive di una performance di Joseph Beuys (I Like America And America Likes Me, vedi anche la foto a sinistra, precisamente ripresa in scena) e del Lynch di Twin Peaks (il personaggio di Lady Log).
Assecondato nel cammino di rarefazione dalla suadente carnalità e dallo scabro soul di Marianna De Pinto (Donna), che sovrasta per intensità i due partner maschili Marco Grossi e Giuseppe Pestillo (insieme nella foto a destra).
Niente postmodernità né video in scena in questo spettacolo, ma forse scavando oltre le prime apparenze – una coerenza con il percorso di denudamento del grado zero delle relazioni personali condotto da Syxty attraverso i suoi ultimi lavori (vedi Il Censore, Mi Ami? etc.) più profonda di quanto potrebbe sembrare.
Mario G
P.S.: foto di scena di Valentina Bianchi, per gentile concessione del Teatro Litta.