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Il sottogenere bambini bastardi e indemoniati conobbe la sua golden age nei ruggenti anni '70 (sull'onda de ciclone L'Esorcista): ricordate la Carrie di De Palma, il ciclo di Omen-Il Presagio et similia? Ritorna in auge ora, nell'era dei sequelprequel etc (vedi ad es. il remake proprio di Omen), riteniamo anche grazie al successo del j-horror tipo Two Sisters e cose così.
Il timore ovviamente è che le major hollywoodiane, consapevoli dell'onda orrorifica in corso ma a corto d'idee nuove, stiano tirando su tutto quel che par loro poter soddisfare il mercato senza correre grossi rischi. Cionostante, ad esempio, il recente Joshua su Nocturno fu molto incensato alla sua uscita (noi non l'abbiamo visto ma ora si trova in dvd quindi rimedieremo).
Abbiamo quindi affidato a Crixi la missione di scoprire se con Orphan (in sala dal 16) dello spagnolo Collet-Serra (già noto per il non eccelso House of Wax) fossimo in serie A o in zone riciclaggio di bassa lega. Di seguito leggete la sua recensione, scritta in collaborazione con l'amica Paola, che debutta al suo fianco e riceve il benvenuto da Posthuman.
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Pieno inverno. Ghiaccio e neve tutto attorno.
La casa di Kate e John, lei pianista affermata ed ex docente a Yale, lui architetto altrettanto di successo, si staglia sul picco di una zona collinare, un po’ isolata e sempre ripresa dal basso, nei pressi di una cittadina che non viene mai citata ad aumentarne l’effetto di sospensione.
Daniel, adolescente nemmeno troppo inquieto e Maxime, figlia sordomuta e dolcissima di sei anni completano il quadro di una tipica famiglia medio-borghese nordamericana: apparentemente perfetta ma retta da un fragilissimo equilibrio, minato alla base dai problemi con l’alcool di lei, causa di un incidente che è quasi costato la vita della piccola Max e l’antico tradimento di lui, mai dimenticato. Non ultima la perdita della figlia Jessica, nata morta, toglie il sonno a Kate, tormentata da incubi e vecchi sensi di colpa.
Con questo spirito i due decidono di adottare Esther, orfana di 9 anni di origine russa, scampata all’incendio della casa dei suoi precedenti genitori adottivi, dalle spiccate dote creative e incredibilmente composta e ben educata. Troppo bello per essere vero. E infatti vero non è.
La domanda che ci si pone di fronte a personaggi infantili dalle connotazioni tanto cupe è sempre la stessa: come può un essere cosi apparentemente innocente covare tanto livore e come non percepirlo a pelle, al primo sguardo? La tentazione, supportata dall’ampia offerta succitata è di tirare in ballo demoni e similia, un po’ come a dire “l’infanzia è regno di innocenza, se c’è malvagità deve venire da un mondo extra-umano”.
Quello che Jaume Collet Serra mette in scena, però, non è lo svelarsi di un demone bambino venuto dalle profondità degli inferi o l’incarnazione dell’anticristo, come accadeva ne La maledizione di Damien (Don Taylor, 1978) ma la manifestazione di una lucida follia, tanto più devastante quanto più la si ostacola nel perseguimento dei suoi scopi. Quali siano questi scopi lo scopriamo scena dopo scena in un crescendo di tensione e claustrofobia, paralizzati sulla poltrona come i due bimbi che Esther piega al suo volere e riduce al silenzio, ancora più doloroso nel caso di Maxime, vittima naturale di questo stato. Ma sino alla fine non ne capiamo davvero le ragioni e questo fa aumentare il senso di angoscia.
Perché, per quanto perfida, laddove c’è manipolazione c’è sempre un fianco che ad essa si presta: in questo caso è il bisogno di lui di salvare la propria immagine, anche a discapito di quella di lei, anche a costo di negare l’evidenza. Miopia e caparbietà che gli costeranno care. Mentre sarà lei, quasi a riscattarsi per le “colpe” del passato a smascherare il mostro.
La storia regge quindi e regge il modo in cui viene raccontata; l’angoscia che produce nello spettatore sta proprio lì, nella sua non improbabilità a fronte dell’orrore che ci fa sfilare davanti agli occhi. Un orrore che fa scorrere meno sangue di quanto ci si aspetti e che più di tutto spaventa, come ogni cosa che ci pone di fronte ai nostri stessi limiti e alle derive cui possono condurci.
Ma se la proposta narrativa è stimolante, ivi incluso il colpo di scena finale, per quanto discutibile sul piano della verosimiglianza, non altrettanto possiamo affermare rispetto alla regia, debole e un po’ sciapa nell’approfondimento dei personaggi e frettolosa sul finale.
Ancor meno entusiasmanti le interpretazione dei coniugi - Peter Sarsgaard e Vera Farmiga – mentre senz’altro degne di nota quelle dei tre bambini, con particolare accento su Esther – Isabelle Fuhrman – profondamente inquietante, e Max, esordiente sordomuta incredibilmente intensa.
Gli amanti del genere insomma non usciranno insoddisfatti, ma ripensandoci a mente fredda forse si sentiranno un po’ frodati. Come una freccia che punta in alto e che pare pure arrivarci fin lassù, ma in fin dei conti perde quota e finisce per spuntarsi.
Crixi L & Paola R