Tenero+Crudele di Martin Crimp, in scena al Teatro Litta di Milano dal 25 febbraio al 20 marzo 2011, si ispira alle Trachinie di Sofocle, fondendo gli orrori della guerra contemporanea (sì, quella "umanitaria contro il terrorismo", no?) con l'incubo privato di un matrimonio che frana in uno squallido... eh sì, non si può che definirlo "bunga bunga".
In Cruel and Tender il drammaturgo inglese Martin Crimp reinterpreta la tragedia di Sofocle per raccontare un dramma moderno di amore e morte sullo sfondo dell’epoca del politically correct e del cicaleccio pubblicitario globale, che rende anche le mostruosità belliche uno spot televisivo.
Nell’originale di Sofocle, il vanaglorioso Eracle distruggeva un’intera città per impossessarsi della figlia del re e portarsela a casa come bottino di guerra, mentre sua moglie, Deianira, sperava di riguadagnarsi il suo amore inviandogli una camicia imbevuta del sangue di un centauro, convinta che si trattasse di una pozione d’amore. Era invece un veleno mortale e portava la fine per entrambi.
A quanto pare, la Storia non inventa nulla, eh?
Crimp tramuta la Deianira di Sofocle in Amelia, che vive insieme al figlio in una casa temporanea vicino a un aeroporto internazionale. Amelia desidera e al tempo stesso detesta il marito, un ufficiale dell’esercito di alto rango, che ha sferrato un assalto (scopriremo, militare quanto sessuale) contro una città africana, ed è accusato di averla condotta al massacro, spinto dalla sua missione di purificare il mondo (non senza essersi accaparrato un po' di gnocca, beninteso, colla fatica che si fa a guerreggiare, cosa deve fare un uomo quando torna a casa la sera?!).
Ad Amelia giunge la notizia che il generale è vivo e presto tornerà da lei. Il Generale intanto però ha inviato alla moglie una ragazza diciottenne, Laela, e il fratellino africano di sei anni, unici superstiti del cruento attacco, con la raccomandazione per Amelia di prendersi cura di loro.
Sia Jonathan, un ministro del governo amico, che Richard, un giornalista, svelano ad Amelia che è stata la conquista di Laela la vera ragione dell’azione di guerra: il generale ha massacrato un intero paese per averla, e poi l’ha spedita a casa sua per poterla trovare lì al suo ritorno e usarla come "bottino erotico".
La regia di Antonio Syxty per questa sua nuova produzione ammetto che all'inizio mi ha spiazzato: l'uso di video in scena (già nei suoi lavori precedenti), quella leggerezza nei dialoghi "superficialotta, da chat room"... ma cosa c'entrano con una tragedia bellica, con strazi e profughi? Allora siamo al manierismo di uno stile, mi chiedevo.
Poi, man mano che la pochade prendeva i toni cupi del dramma incombente, cominciavo a percepire che forse c'era un senso in tutto ciò: anche la tragedia, nel blob multimediale globalizzato, ha perso solennità; non c'è massacro, genocidio, crimine contro l'umanità che non ci venga narrato frammisto a spot pubblicitari e amenità idiote.
Ma come dirlo meglio che con le parole di Alex Tonelli, amico, narratore e collaboratore di NeXt che con il pezzo che segue debutta su Posthuman?
A lui la parola, per un'analisi arguta e profonda.
E’ l’assenza la vera protagonista della messa in scena di Antonio Syxty.
Ciò che è assente e la cui non presenza incombe sulla scena e sui personaggi come una cappa asfissiante è la realtà. Oh, apparentemente essa è ben visibile in scena nella sua forma più dura, più violenta, più radicale: la Guerra. Una guerra che noi stessi abbiamo imparato a conoscere e a riconoscere, una guerra preventiva, una guerra combattuta in terre lontane, esotiche ma anche qui, nelle nostre strade, nelle nostre metropoli, una guerra contro il terrore, contro la paura… paura, che senza palpebre si infila nel letto e non dorme, non dorme mai… come mormora triste Amelia, uno dei personaggi dell’opera.
La realtà vestita da guerra è sulla scena: è nella casa di plusso vicino ad un aeroporto che resta sempre lontano, irraggiungibile, desiderio inespresso di fuga; è nella famiglia raccontata da Crimp, cresciuta nella guerra; è nella biografia stessa dei singoli personaggi; è in Amelia, moglie del generale a cui è stato affidato il compito di portare la guerra nel mondo; è nello spazio scenico che ricorda un campo di prigionia con del filo spinato sullo sfondo; è nelle vicende narrate, storie di comune devastazione.
La realtà è nei profughi, bambini di colore che il Generale ha mandato nella propria casa affinché la moglie se ne prenda cura; è nella giovane donna, una ragazza, quasi muta, tribale nella sua sfacciata e vistosa femminilità animale per cui il Generale ha ucciso e sterminato un intero popolo… ma è davvero lei la causa di tutto, della Guerra e della Realtà stessa?
La realtà è, apparente, nel giornalista insistente e curioso e lo è ancora nell’inviato del governo che sembra più un PR di qualche grossa multinazionale che un politico. La realtà travestita da guerra è nel suono lontano di qualche elicottero, di qualche aereo che passa nei cieli, non visto, forse sognato.
Ma, se tutto è così sfacciatamente messo sul palco, perché allora si ha la sensazione che la realtà sia realmente assente? Perché tutto sembra così distante? Perché seppure lì, a calpestare il palco con le sue conseguenze, le sue atrocità, i suoi profughi, la morte e la violenza, la guerra sembra finta, fatta con armi di cartapesta?
Perché ciò che Crimp ci racconta non è un dramma di un’umanità di fronte alla guerra, alla realtà, alla storia ma è ben altro. La realtà del mondo fuori dalle stanze in cui la vicenda avviene non esiste quasi neppure, non importa, i personaggi accettano ciò che accade fuori scena, nel mondo reale, quasi per fede, passivamente, come uno scontato dato di fatto e anche quando tentano una ribellione, lo fanno fuori scena, in quel limbo nero di non-esistenza che ci viene raccontato con frivolo distacco dalle tre megere del coro (come quando ci raccontano del sangue sparso ovunque dopo il suicidio di Amelia).
Ciò che accade nel mondo reale, che giace sempre nel fuori scena, è così indistinto, così diafano, che può essere smentito senza troppi clamori: il Generale muore avvelenato o forse no? Era un inganno?
Non è la realtà del mondo ad essere rappresentata sulla scena ma una realtà diversa, più piccola, individuale, familiare, la realtà di tutte le infinite case di periferia. Identica in sé stessa, in ogni luogo e in ogni tempo; non reale, ma neppure ir-reale, semplicemente a-reale.
Crimp non fa altro che indagare con occhio attento il dramma di una qualunque delle famiglie della nostra contemporaneità ed è solo un caso, fortunato o sfortunato che sia, che questa famiglia sia la famiglia di un Generale mandato nel mondo per combattere le "guerre giuste" dell’Occidente. Ma poteva essere la vostra famiglia…
Ciò che osserviamo sulla scena è un dramma piccolo borghese di persone che di lavoro giocano con i destini di interi paesi, di intere popolazioni ma che nella loro, individuale, singola, banale quotidianità vivono le emozioni molli, un po’ egoiste, che ogni spettatore vive ogni giorno rientrando a casa. E allora tutto è ancora una volta mimesi, semplice imitazione della nostra esistenza, imitazione da fruire quasi fosse una medicina per purgare (catarticamente) il nostro quotidiano vivere e le ripetute, sghembe, nostre emozioni.
Scopriamo ancora che la contemporaneità del teatro, e soprattutto del teatro greco, si nasconde nel saperci raccontare noi stessi, ovunque noi possiamo essere nati, o in qualunque tempo noi stiamo vivendo.
Anche qui ed ora.
Alex Tonelli
Insomma, Cetto Laqualunque ha vinto (e se vedete il film Qualunquemente scoprirete una "tragica" somiglianza fra le due trame), solo che non sapevamo che già Sofocle scrivesse di lui.
Mario
(foto di scena by Federico Cambria)