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Mi sono chiesto più volte quale sia l’essenza dello “stile Scorsese”. È facile definirlo per registi “di genere” (da Argento a Carpenter) o per “auteur” come Lynch, Cronenberg, ma anche Abel Ferrara o Jim Jarmusch, che sviluppano una filmografia compatta e coerente con una certa filosofia.
Ma grandi registi (e il discorso potrebbe valere anche per altri nomi, tipo un Coppola) che ti spaziano – restando a Scorsese – dal “ciclo newyorkese” di Taxi Driver all’Ultima Tentazione di Cristo, dall’Età dell’Innocenza, tornando alle Gangs of NY e ai Departed mafiosi, per poi omaggiare gli Stones di Shine A Light, l’Aviator… insomma, esiste una griffe autoriale che unisce temi e stili così diversi, o è solo la personalità di un grande classico in grado di affrontare da maestro qualsiasi materiale?
Domanda oziosa, direte voi, quando ci si trova davanti all’ennesimo capolavoro, in un genere finora mai trattato dal regista e ancora una volta risolto con una compattezza classica senza il minimo cedimento in nessun dettaglio: sceneggiatura, fotografia, recitazione, ambientazione, musiche, ritmo…
Perché in effetti Shutter Island (a destra un inquietante poster alternativo) questo è: un thriller gotico psicanalitico praticamente perfetto, nella cui trama si stratificano mirabilmente tragedie individuali, il rantolo sanguinoso della Storia (le memorie dei campi di sterminio nazisti), incubi di Guerra Fredda e complotti per il controllo delle menti a scopi politici, senza mai perdere il baricentro di una suspence che non ti molla un attimo per 2 ore e 20 (a parte qualche perdonabile didascalismo a beneficio del grosso pubblico).
Il tutto contestualizzato nei primi anni ’50, quando la fine del nazismo era fresca (come la riabilitazione di alcuni suoi inquietanti scienziati), la Guerra Fredda in piena ‘glaciazione’ e la psichiatria stessa in una fase di evoluzione epocale, dal medioevo dei manicomi-prigione a una visione più umana e meno spietata del paziente ‘matto’.
Nella costruzione della sfoglia narrativa composta da tutti i livelli di cui sopra, va detto che la sceneggiatura di Laeta Kalogridis (dal romanzo omonimo di Dennis Lehane del 2003, edito in Italia da Piemme come L'isola della paura) è veramente una macchina implacabile. E sull’agghiacciante filo rosso che potrebbe collegare i crimini nazisti a consimili manovre anticomuniste della CIA dell’epoca, ai più brutali istinti umani che covano sempre un passo più in là dietro ogni curva dell’anima, il film spara alcune delle sue gemme filosofiche più splendenti e taglienti: “Abbiamo vinto una guerra solo per rivedere le stesse mostruosità rifatte a casa nostra” (o qualcosa di simile, cito a memoria), dice l’agente Di Caprio al suo collega angosciato. E “Dio ama la violenza”, sogghigna malefico il capo delle guardie ancora a Di Caprio, sottolineandogli d’aver capito che entrambi sono capaci di un grande potenziale di violenza, checché l’agente si creda “il buono” della partita.
Non meno inquietanti le situazioni in cui all’attonito protagonista viene mostrato praticamente come sia facile, partendo da un trauma nel passato e qualche sintomo d’emicrania, dimostrare al mondo che l’individuo “scomodo” è uno psicopatico da curare. Come accadeva nel geniale racconto di ambientazione medico ospedaliera Meno Uno di James G. Ballard (lo trovate nel 2° volume dei racconti completi edito da Fanucci).
Vorrei non raccontarvi per esteso la trama (che peraltro avrete già fiutato in giro), per non guastarvi il gusto di scoprirla coi vostri occhi sorpresa dopo sorpresa in sala, anche perché raccontarla in parte senza svelare il ribaltamento finale significherebbe banalizzarla. Shutter Island non è un comune noir in cui lo spettatore sveglio può arrivare prima a scoprire il colpevole: è un gorgo a spirali concatenate, come una scalinata di Escher, che si ritorcono sul suo protagonista avviluppandolo senza speranza.
In questo assomiglia più a quei film dell’incubo surreale come L’Inquilino del Terzo Piano di Polanski, il Processo di Orson Welles o Mulholland Drive di David Lynch.
Meno sperimentale nella forma rispetto a un Lynch, Scorsese è narrativamente lineare e stilisticamente classico come un Eastwood (con il quale peraltro condivide lo stesso autore letterario di Mystic River).
Noi per ora non abbiamo letto il romanzo originale (ma che voglia adesso!), né il graphic novel omonimo trattone in Italia da Ascari & Riccadonna (ed. BD), ma vedendo il film i riferimenti a Kafka sono nitidi e testimoniati anche dalle proiezioni predisposte da Scorsese per lo staff artistico (come nota il ricchissimo presskit del film, citando schegge di follia come il Caligari di Wiene, il Corridoio della Paura di Fuller, Bedlam o Titicut Folies, quasi un riassunto del dossier n. 77 di Nocturno sul cinema della follia).
O, se volete, anche a un Philip K. Dick extra-fantascientifico, perché alla fine la domanda chiave che il film ci lascia aperta è quella di tutti i suoi romanzi: qual è la realtà? C’è in azione un complotto o un folle? Ricordate Ubik: è morto Runciter nell’attentato o “io sono vivo, voi siete morti”?
{mosimage}Naturalmente – ma poteva non esser così? – di altissimo livello tutti i contributi tecnico-artistici che sfoggia il film di Scorsese: dalle interpretazioni di tutti gli attori (Di Caprio, il viscido Kingsley, il teutonico Von Sidow, Ruffalo e le donne Micelle Williams, Emily Mortimer e Patricia Clarkson nel doppio ruolo della misteriosa Rachel Solando) alla fotografia livida di Robert Richardson; dalle scenografie di Dante Ferretti (i cunicoli del “blocco C” sembrano davvero delle prigioni di Piranesi! - vd foto a destra) alle drammatiche musiche contemporanee scelte da Robbie Robertson per l’incombente colonna sonora: da Mahler a John Cage, Brian Eno, Ligeti, Penderecki, Scelsi, June Paik con poche pop song d’ambientazione anni ’50 (abitualmente Scorsese usa molto la pop song per definire l’epoca dell’azione), per uno score non dissonante come ci si potrebbe aspettare dati i nomi, ma d’intensa temperatura emotiva.
Film assolutamente obbligatorio per questo inizio di 2010.