Claire Denis – da me scoperta nel 2001 col violento e disturbante Cannibal Love - Mangiata viva (Trouble Every Day), con Béatrice Dalle divoratrice (letteralmente) di partner sessuali – torna a indagare quel nodo indigesto in cui la solitudine esistenziale esaspera desideri irrazionali e ferini fino a deflagrazioni incontrollabili, che penso sia un po’ la sua griffe autoriale (ma ammetto di non aver visto tutta la sua filmografia).
Nel suo ultimo High Life (in apertura e a lato locandine internazionali) lo fa con gli strumenti del genere fantascientifico spaziale, quindi doveroso occuparsene per noi, anche se la distribuzione italiana l’ha colpevolmente ignorato ed è stato possibile vederlo solo domenica 9 al coraggioso festival milanese Oltre lo Specchio in proiezione unica sottotitolata. E nonostante un cast anche di notevole appeal, che schiera un divo come Robert Pattinson nel ruolo del protagonista Monte, Juliette Binoche in quello della dottoressa Dibs, Mia Goth (sotto a sinistra, indimenticabile in Nymphomaniac 2) e persino il rapper André Benjamin (sotto a destra, che però non canta nella colonna sonora, a differenza di Pattinson) in quello di uno degli altri prigionieri del cast.
Giacché l’intero equipaggio della spedizione spaziale 7 è proprio composto da reietti: ergastolani o condannati a morte, che hanno scelto l’esilio spaziale definitivo invece della morte in cella. Reietti che il sapere che, comunque vada il viaggio, loro sul Pianeta Azzurro non rimetteranno mai più piede spinge progressivamente verso la follia, i gesti estremi, autolesionisti o violenti nei confronti dei compagni di pena. Li guida la dottoressa Binoche, più matura ma non meno colpevole di tutti gli altri, avendo ella soffocato i propri figli col cuscino, accoltellato il marito e poi tentato il suicidio. Forse in un disperato tentativo di ripristinare la vita distrutta di mano propria, Juliette-Dibs è ossessionata dagli esperimenti di procreazione – peraltro sempre artificiale – che porta avanti caparbiamente sui suoi giovani e fertili compagni di viaggio, richiedendo donazioni di sperma ai maschi, rubandolo di notte al riluttante Monte (sotto) e arrivando fino ad ingravidare una femmina ignara mentre dorme nella sua branda.
Come intuite, ci troviamo nell’empireo della fantascienza filosofica con ambizioni alte dei Solaris (i flashback sui cari perduti) o dei Sunshine di Danny Boyle (la disperata missione spaziale, qui senza neanche la speranza di poter salvare l’umanità immolandosi), ma il film di Claire Denis secondo me porta in sé – come le provette della Binoche – ben altri geni, letterari e cinematografici:
1) Labirinto di Morte, romanzo di P. K. Dick del ’70 mai tradotto in film, ma in cui un equipaggio spaziale inganna con una specie di gioco di ruolo la disperazione di orbitare intorno a un buco nero senza speranza di salvarsi;
2) Il corridoio nero, romanzo di Michael Moorcock del ’69 (pure mai filmato ma ispiratore di un brano degli Hawkwind), in cui di una spedizione spaziale rimane in vita solo il protagonista, che però potrebbe anche essere colpevole delle morti dei suoi compagni di viaggio, di cui non ricorda nulla;
3) Dante 01, film del 2008 (eccessivamente stroncato all’epoca) di Marc Caro, ambientato appunto su un’astronave-colonia penale in cui esploderà la violenza.
Ok, composto il nostro piccolo Lego delle citazioni per il manuale del fantascientista, va comunque detto che High Life, nonostante le affascinanti immagini spaziali, è soprattutto e fortemente un film di Claire Denis: lento, dolente, poco dialogato e a sussurri dai suoi attori (tutti in parte e ottimamente diretti), con improvvise e perciò ancora più disturbanti esplosioni di azione violenta a fronte di assai poche spiegazioni razionali: perché la dottoressa è così concentrata sul ricreare artificialmente la vita? Perché tutti – tranne l’asceta Pattinson – si dedicano a una violenta tecnomasturbazione nella cosiddetta “fuck room” ma poi sembra che nessuno abbia veri rapporti con gli altri compagni di viaggio, pure composto da ambo i sessi? Il sottovuoto spinto dello spazio porta alla luce la disperata solitudine consustanziale all’essere umano? Allo spettatore darsi le risposte che troverà dentro di sé: il film rimane estremamente suggestivo e visivamente affascinante quanto plumbeo e psicologicamente straziante anche se non tutto ci viene chiarito logicamente.
Narrativamente, c’è anche la complicazione di una struttura anticronologica, in cui seguiamo Pattinson solo nella navicella accudire amorevolmente una neonata, e di lì risalire a come egli sia rimasto l’unico vivo della spedizione e come sia nata la bambina, anche se – ultimo interrogativo irrisolto – come nel Corridoio di Moorcock non ci è chiaro se gli ultimi compagni di viaggio che lo vediamo espellere nel vuoto li abbia prima eliminati lui stesso. Nel finale, ermeticamente kubrickiano, la neonata è ormai diventata un’adolescente che affronterà col padre l’ultimo viaggio verso l’ignoto (sotto a sinistra): annullamento o resurrezione?
Affrontate con lui l’odissea nello strazio siderale: vale lo sforzo di attenzione e decodifica che vi richiederà. Vi troverete, come d’uso, anche le malinconiche musiche dei Tindersticks, o meglio del loro cantante Stuart Staples, altro marchio di fabbrica della regista francese, qui alle prese (data l’ambientazione) con un minimale tessuto d’elettronica invece delle abituali atmosfere crooner alla Nick Cave, che emergono solo nella canzone dei titoli di coda. Difficile però definirlo proprio un film “fantarock”: forse più… fanta-gloomy.
A presto con altre visioni dal fantafestival Oltre lo Specchio, che presenta un programma di film internazionali tutti inediti per l’Italia, insieme a una nutrita selezione di corto e mediometraggi, anche di elevata qualità, su cui ritorneremo.
Mario G