Scippiamo il titolo dell’immortale canzone dei Talking Heads (a lato la copertina dell’edizione inglese del singolo del ’79) per intestare la nostra nuova incursione su “come atterra in teatro la fantascienza” (a sinistra una foto dello storico R.U.R. di Karel Čapek del 1920): stavolta abbiamo visto una serata al Franco Parenti intitolata La regola dei giochi, e composta da due brevi atti unici (ciascuno di poco più di mezz’ora), entrambi interpretati da due attori e scritti da Anton Giulio Calenda diretti da Alessandro Di Murro e portati in scena dalla giovane compagnia romana Gruppo della Creta.
Siamo in piena distopia orwelliana aggiornata: Ucronia. O va tutto bene descrive un mondo all’indomani della Terza Guerra Mondiale, vinta dagli Stati Uniti d’America, come ci spiega con garrulo entusiasmo da casalinga felice degli spot anni ‘50 una giovane donna dal suo “Google Nido” – un prisma di tubi al neon a forma di doppia piramide speculare – la cui artificialità ipercosnumista è accentuata dagli effetti di distorsione della voce microfonata, che la fanno sembrare una specie di Laurie Anderson di O Superman.
La “Google-consumatrice felice” c’illustra le peculiarità di questo nuovo sistema globale dove tutto è “americano al massimo”, l’Italia meridionale appartiene alla Turchia, la Russia ad Amazon, i poli sono stati completamente sciolti, si parla inglese in tutto il pianeta e l’inflazione è stata sconfitta. Come i “poveri”, che “per fortuna non si vedono più”.
A sorvegliare sulla protagonista è il “Google Amico”, una figura onnipresente che accompagnerà la descrizione geopolitica resa dalla sua padrona deambulando su pattini fluorescenti da discoteca e con visore da realtà virtuale sugli occhi. Spedizioniere implacabile di un Google-universe bellissimo come una prigione dorata, in cui il mondo è esattamente fatto su misura delle scelte che ci illudiamo di compiere liberamente fra le fantastiche non-opzioni del mercantilismo globalizzato.
La seconda mini piéce, Soldato, potrebbe essere il prequel ideale della prima, ossia “come siamo arrivati fin qui”: due militari in divisa bianca e rossa marciano indefinitamente verso un misterioso “nemico” sconosciuto come i Tartari di Buzzati, di cui ignorano le motivazioni, i fini, tutto. Sanno solo che è per definizione “cattivo” perché “ha ucciso i nostri figli piccoli, stuprato le nostre donne, distrutto chiese, ospedali, stazioni...”. Ossia esattamente ciò che si propongono di fare i due commilitoni della civiltà del nemico, non appena l’avranno incontrato, come gli ordinano i loro altrettanto lontani e inconoscibili “capi”. Come i capi del nemico hanno ordinato ai propri sottoposti.
L’assurdità brechtiana del lasciarsi mettere in mano un fucile per andare a fare la guerra a chicchessia in nome di quei capi (che probabilmente sono più nemici di quelli con “la divisa d’un altro colore”, come cantava De André) emerge evidente da dialoghi assurdi ed estenuanti, che cominciano e finiscono sempre col vocativo “soldato” del titolo (“Soldato! Perché marciamo, soldato?”), riportandoci alla memoria i grotteschi dialoghi coll’ufficiale istruttore del kubrickiano Full Metal Jacket.
Anche nei due atti unici del Gruppo della Creta predomina l’apparentemente ineludibile mood ironico di quando l’arte scenica tocca la dark matter del futuribile, anche se qui più a fuoco che nel già analizzato RAM, perché qui il sarcasmo è puntato su come stiamo accettando di veder degradata la nostra vita, non su aspetti secondari del dramma, come i dialoghi con la serva o i vermi nel piatto (che rischiano di sminuire la tragicità del tema della vendita di porzioni d’identità).
Con questo non vogliamo dire che i due testi di Calenda rappresentano i nuovi Brecht o Beckett, né che ci mostrino scenari così originali da eclissare quei 1984 di Orwell o Il Mondo Nuovo di Huxley che da quasi un secolo presiedono fieramente agli sviluppi della fantascienza distopica. Chiunque affronti queste tematiche in teatro deve essere consapevole che sono state affrontate con mezzi produttivi di messa in scena di alto livello in film come Lei/Her di Spike Jonze o in serie tv fortunatissime come The Handmaid’s Tale di Bruce Miller (dal romanzo della Atwood).
In teatro bisogna far saggio uso di mezzi abissalmente inferiori, come con l’approccio metaforico della Loretta Strong di Copi/Phoebe Zeitgeist, o nel Libri da Ardere di De Capitani, regista ma anche attore di statura incommensurabile rispetto ai giovani interpreti del Gruppo della Creta (Matteo Baronchelli, Alessandro De Feo, Amedeo Monda e Laura Pannia).
Ciò che va indubbiamente riconosciuto al giovane ensemble, è l’arguzia profetica d’aver vergato questi testi originali quattro anni fa ormai, quando ancora il nostro mondo occidentale “sazio e disperato” si credeva fortunatamente “immune dal virus della guerra” (dalle note sullo spettacolo), che invece ora minaccia d’inghiottire davvero l’intero pianeta in una terza guerra mondiale che, se deflagrasse a livello globale come minaccia di giorno in giorno, non sarebbe più neppure con tanta sicurezza “vinta, naturalmente, dagli Stati Uniti” come nel testo.
Merito del Gruppo della Creta aver puntato il dito sulla nostra degradata attualità senza trincerarsi dietro l’interpretazione di un testo classico, egual merito del Franco Parenti aver dato loro chance di farci riflettere sopra, attirando alla serata – altro merito non da poco – un pubblico mediamente più giovane di quello che ahinoi frequenta abitualmente le sale teatrali.
Mario G
PS: chi si salverà dalla prossima guerra? La tavola in apertura e quella qui sopra a destra sono di Tommaso Bianchi, tratta dal fumetto in progress Jack – un super sportivo da Marte (by Gazzola/Bianchi).