Negli extra del pregevole cofanetto che riunisce i primi due film del Kitano regista – noti da noi come Violent Cop e Boiling Point - Enrico Ghezzi, il primo a presentarli in festival e in tv in Italia (quando ancora era uno sconosciuto in patria) dice che avrebbe voluto unirci anche Sonatine, in un’ideale trilogia del neo noir. A vedere i primi due (e ahimé non conoscendo ancora il terzo) c’è solo da dolersi che non sia stato possibile e sperare che RaroVideo riesca a chiudere il trittico presto, perché lo shock garantito dal “doppio esordio” è notevole.
Si dice doppio esordio perché stilisticamente i due film sono diversissimi fra loro, a parte il fatto di essere due noir (e già qui pensate: quanti attori brillanti conoscete in Occidente disposti a interpretare uno sbirro alla Callaghan in un film e uno yakuza pervertito nel successivo?!): il primo realizzato per caso con mezzi ridottissimi (era stato proposto al veterano Kinji Fukasaku, futuro regista di Battle Royale), il secondo concepito come un vero e proprio manifesto di un’antipoetica che negava le stesse coordinate del precedente film: Vincenzo Buccheri, nel Castoro Cinema dedicato a Kitano, lo definisce “godardiano per la libertà stilistica con cui lascia galleggiare i materiali narrativi senza preoccuparsi di ricondurli a un’unità stilistica”. Infatti, la trama procede “per accumulo” di situazioni e personaggi, senza svilupparli, mescolando il gangster movie al romanzo di formazione, per poi negare allo spettatore tanto la soddisfazione di una trama coerente (con un protagonista che guida un’azione almeno), quanto la formazione cui dovrebbero pervenire i giovani giocatori di baseball (sottotesto tipico dei film a soggetto sportivo).
Invece crepano tutti, malamente e senza un senso. Kitano ucciso in un posteggio, dopo essere entrato in scena dopo ¾ d’ora dall’inizio e aver dispensato violenze insensate a tutti quelli che gli stavano vicino, fidanzata e amici, senza peraltro che costoro minimamente si ribellassero o ne rilevassero l’assurdità. L’unico che compie un’azione dotata di un’ombra di senso (e solo nel finale) è proprio il giovane giocatore “senza qualità”, che ruba un’autocisterna per autoimmolarsi distruggendo la tana degli yakuza: come dire, crepiamo tutti che è meglio!
Per esigenze di spazio non mi dilungo sulle due trame, ma non è che peraltro quella di Violent Cop sprizzi otimmismo! Guardiamo la sequenza finale: il detective Kitano ammazza il ‘cattivo’ (finale per eccellenza di ogni giallo), poi anche la propria sorella (rapita e drogata da quest’ultimo, un omicidio per pietà), poi egli stesso viene ucciso dal mafioso emergente che prenderà il posto del defunto, come a dire che non c’è possibilità di giustizia né redenzione, il male si rigenera e tutto rimane come prima, si può solo perire nella lotta. E questo è “solo” il lieto finale del film!
Più lineare del successivo Boling Point, Violent Cop ha in comune col suo successore solo quella che è forse la griffe più appariscente del Kitano regista: il silenzio, la muta staticità non solo del Takeshi attore – scolpito in una maschera d’imperscrutabile apatia dall’inizio alla fine del film – ma di tutti i personaggi, che pronunciano piattamente il minimo indispensabile dei dialoghi in stato di apparente anoressia emotiva. E infine anche delle stesse situazioni: notate le scene di Kitano: non c’è quasi mai dinamismo, azione, sono come dei quadri. I personaggi sono lì immobili e silenziosi, poi all’improvviso uno estrae un’arma e uccide ferocemente un altro senza dire una parola, senza nemmeno rabbia. Quindi torna la calma.
E questa non è una scena di un film. È LA scena kitaniana per antonomasia.
Forse in Giappone la sua storia di attore comico-crudele rende più palese al pubblico l’ironia spettrale di queste situazioni: da noi, calate in un universo puramente noir, trasudano un pessimismo assoluto e nichilista. Quello di un autore che ci sbatte in faccia l’assenza di ratio in ogni umano comportamento, sia nella trincea dei ‘buoni’ che in quella dei ‘cattivi’, dove l’assoluta gerarchia mafiosa sopravvive sì, ma solo attraverso rituali barbari (come il classico taglio del dito offerto al capo in segno di riparazione per un errore compiuto), svuotati di ogni aggancio sociale, di un qualsiasi ‘codice morale’ per quanto criminale.
In questo senso io, che non sono un esperto di Godard, vedo nell’approccio di Kitano un’astrazione un po’ alla “Jim Jarmusch del Sol Levante”: silenzio, lentezza, inazione, come sintomi dell’assoluto vuoto sociale, esistenziale, comunicazionale di una società (là un’America “fatta di stranieri”, qua un Giappone raggelato e svuotato dalla storia).
Ecco che così l’intreccio gangsteristico si eleva a metafora filosofica, con ambizioni sicuramente più alte del (pur geniale, beninteso) manierismo cinefiliaco del Tarantino cui – per comunanza di soggetti noir – Kitano è stato accostato all’inizio, come “compagno” in un’ideale squadra di registi rinnovatori del noir. {mosimage}Ma, fatte le debite distinzioni culturali e filosofiche, sempre Ghezzi ci ricorda che Violent Cop – essendo dell’89 – si pone se mai come apripista della falange pulp dei Coen, Tarantino (Le Iene è del ’92), oltre che come visione autoriale totalmente autonoma. Per intenderci, se ironia c'è in Kitano, non è quel grottesco fumettistico con cui Tarantino e Frank Miller giocano coi loro modelli di cinema-b, che magari possiamo ritrovare in Takashi Miike. Qui regna un'ironia esistenzialista assai più agra, sulla natura umana.
Ci ritroviamo presto per parlare del lussuoso “Jodorowsky box”, sempre edito RaroVideo, un must del cinesurrealismo da assimilare con calma ma obbligatorio pure lui.
Buone visioni a voi!
Mario