Gabriele Salvatores è un regista con cui ho un rapporto particolare a distanza: è l’unico con cui ho condiviso una pagina di Repubblica (la concomitanza di una sua intervista ha garantito alla mia piccola rassegna di fantafilm italiani al Ligera di via Padova di galleggiare in un intero paginone nella sezione milanese del quotidiano).
Del resto, lui è praticamente l’unico ad aver osato un film di fantascienza nei tristi anni ’90 del cinema italiano (Nirvana). Vanto che rende particolarmente sensata la sua postfazione al FantaRock (conquistata grazie ai buoni auspici del coautore Ernesto Assante), in cui racconta che “i capelli blu di Naima in Nirvana vengono direttamente dal Bilal di Metal Hurlant” e che “con il Teatro dell’Elfo (di cui è cofondatore, NdA) abbiamo messo in scena i racconti di Bradbury”.
Eppure se domani gli diceste che “a Mario Gazzola il suo Ritorno di Casanova (poster qui a sinistra) è piaciuto molto” sicuramente vi sorriderebbe come suo solito chiedendo “Gazzola chi?”. Come del resto fa il suo Leo Bernardi (Toni Servillo nell’ennesimo saggio di economia espressiva e distaccata ironia) a proposito del giovane regista-rivale Lorenzo Marino (Marco Bonadei).
Perché Leo – come Gabriele – è una star ormai arrivata del cinema, tutti lo chiamano “Maestro” anche se lui ignora tutti ostentatamente, divorato da una crisi esistenziale che lo mette sulla stessa graticola su cui rosola il protagonista del suo ultimo film, tratto dall’omonima novella di Schnitzler (copertina del libro Adelphi qui a lato).
Quel Giacomo Casanova ormai invecchiato, quindi perfettamente interpretato dal fu bello dell’italocinema Fabrizio Bentivoglio (molto legato a Salvatores), che torna alla sua Venezia stanco di fama e di sventure, fughe e amorazzi ma – quel che più gli pesa – non più “bello”.
Privato del suo “superpotere”, ormai (ex ragazzo) invisibile, per espugnare un’ultima conquista femminile – la bellissima Marcolina/Bianca Panconi – deve ricorrere al gioco d’azzardo e al sotterfugio, per finire poi a giocarsi la vita col giovane rivale (Angelo Di Genio, a destra) nella scena ridleyscottiana del duello alla spada dei due uomini completamente nudi all’alba (capirete vedendo perché), pronta per finire di diritto nelle antologie del cinema.
Il vero rivale di Casanova è però l’insopportabile riflesso di sé che gli rimanda lo specchio: lo stesso fastidio che prova Bernardi/Servillo alla moviola cui dovrebbe sedere per finire il suo film, mentre la sua mente è impegnata dalla sfida che gli impone la giovanissima innamorata Silvia – la radiosa Sara Serraiocco (a sinistra con Servillo nella passione, NdR) – contadina in trattore incontrata nei sopralluoghi per le location del film, fulmine a ciel sereno nella “sazia e disperata” vita del maturo regista, per nulla impressionata dal divario d’età e anzi pronta a condividere con lui una sfida esistenziale determinante (che non vi sveliamo anche se non è difficile da immaginare).
Accetterà il regista di uscire dal bianco e nero della sua vita attuale (impagabilmente fotografato da Italo Petriccione, da sempre con Salvatores) per rischiare di tuffarsi oltre i 60 anni in una vita a colori con la nuova partner, quella che per ora vediamo solo nelle riprese del suo film, che nel suo smarrimento lascia montare al fido Gianni (Natalino Balasso), restando fedele al suo motto “morto un film se ne fa un altro”?
Dilemma non nuovo al cinema, come del resto l’impianto del film nel film, quello di questo dramma “8½ + Casanova” felliniano, che cita anche implicitamente Wenders (l’alternanza b/n-colore), Ridley Scott (il citato duello) ed esplicitamente Hitchcock (la frase “voi vedete solo un film ma per me è tutta la vita”).
Non nuovo ma declinato con maturità e sapienza cinematografica sopraffine, con le abituali incursioni nella commedia – una griffe del regista con cui non sempre mi son trovato d’accordo (specie in Nirvana per esempio) – qui ottimamente inserite nella vicenda: ad esempio la rivolta “emozionale” dell’avveniristica casa domotica del regista e dello sportello bancomat in cui rimane imprigionato da una tecnologia capricciosa; e servite da un cast superbo, in cui spiccano anche i comici Ale (l’amico di Casanova Olivo) e Franz (l’ipocondriaco al pronto soccorso) e soprattutto il grifagno marchese Celsi dell’irriconoscibile (sotto il pesante trucco e parrucco nobiliare) Elio De Capitani, vecchio amico di Elfo in un cameo di lusso nel film insieme alla voce narrante fuori campo di Ferdinando Bruni.
Una sapienza registica matura che ci serve un film raffinatissimo e che conferma ancora una volta l’impegno del regista, dopo l’Oscar per Mediterraneo, a impiegare i mezzi produttivi di cui ora può disporre per esplorare sempre nuovi generi (sci-fi e poi il thriller di Aldo Nove e noir, gangsteristico, persino una via italiana al supereroistico) non riposando mai sul già fatto.
Un metacinema stavolta – dopo il metateatro di Comedians – godibile in ogni sfumatura, inclusa quella della ricchissima colonna sonora – sempre del fido Federico De Robertis – che, tra una Piano Man di Billy Joel e un brano vivaldiano d’ambientazione settecentesca, ci offre momenti notevoli, come ci si aspetta dal regista ex hippie che “da ragazzo s’immaginava musicista” (sempre FantaRock): su tutti vi segnaliamo la Scarborough Fair di Simon e Garfunkel, cantata dalla Serraiocco accompagnata da Servillo alla chitarra (still a destra), che scivolando in una scena del film su Casanova si trasforma in un madrigale settecentesco col clavicembalo. Altra chicca da antologia.
Le altre le scoprite in sala dal 30 marzo.
Mario G