“Paddy, what a fantasic death abyss”
(David Bowie, The Heart’s Filthy Lessons)
Nei giorni scorsi è riapparso sugli schermi milanesi (prima in originale al Cinema Beltrade, poi doppiato anche all’UCI) Climax di Gaspar Noé, film che avevamo già recensito dopo il passaggio al Milano Film Festival, accostandolo al tedesco Luz, magari arbitrariamente (in quanto visti nello stesso contesto) ma forse significativamente, trattandosi quest’ultimo di un originale film di possessione.
Nessuna strega, nessuna invasione demoniaca nella controversa pellicola del provocatorio regista francese (anche se all'inizio uno dei ballerini parla di una "strana atmosfera" nella scuola della festa, legata forse a "strani rituali... sacrifici..."), se non l’invasamento causato da una sostanza psichedelica (presumibilmente Lsd) nella sangrìa bevuta dai ballerini di Climax durante una festa che quindi degenererà in un autentico sabba non privo di spargimenti di sangue “laicamente sacrificale” (tra cui quello del figlio della coreografa, alla fine suicida per senso di colpa) e orge da moderne baccanti di varia sessualità.
Non sono pochi ormai gli articoli (ad es. QUI) che hanno accostato lo psycho trip di Noé al classico Suspiria, che peraltro compare fra le Vhs accatastate sul lato destro dello schermo tv su cui scorrono le interviste coi ballerini protagonisti all’inizio di Climax, che peraltro al capolavoro di Argento erige un manifesto omaggio, nei violenti quadri monocromi ipersaturi in rosso e verde per rendere lo straniamento percettivo dei moderni danzatori “invasati” dallo stupefacente a liberare i propri lati reconditi meno presentabili (rabbia, violenza, omosessualità, incesto etc.).
Benché si tratti di un oggetto cinematografico alieno alla categorizzazione nell’horror come nell’occultismo puri, Climax (di cui vedete sopra la locandina in caratteri cirillici) sfoggia sorprendenti assonanze col classico argentiano e anche col suo recente (e parimenti discusso) remake di Guadagnino (da noi già recensito QUI, sopra insieme alle altre due locandine rispettive): non solo per la centralità della compagnia di danza e quindi per la sorprendente affinità di alcune inquadrature (si veda qui sotto), ma anche per una riflessione disincantata sull’approccio moderno all’occulto.
Ma cosa c’entra una banda di ballerini drogati con una congrega di streghe celata dietro la rispettabilità di un’austera scuola di danza? Ce lo spiega il saggio Uomo diventa Lupo di Robert Eisler (Adelphi, 2019), osservando che i comportamenti dal Medioevo cristiano bollati come “stregoneria" in realtà affondano le loro radici nei selvaggi rituali orfici delle baccanti greche (da cui l’omonima tragedia di Euripide) o degli Isawiyya marocchini: “nel 1929 riuscii a dimostrare l’identità fra questo rito berbero e le orge bacchiche delle menadi o ‘donne furiose’, ricoperte di pelli di lince, di leopardo e di volpe (…); esse facevano a pezzi e divoravano crudi cerbiatti, capretti, agnelli, serpenti, pesci e perfino fanciulli”. “Come aveva realmente luogo l’orgia estatica degli accoppiamenti fra le ‘donne furiose’ e i maschi (…) ‘bevitori di vino’ (…) chiamati anche satiri, vale a dire uomini itifallici (…)" (pg 36). E "Solo dopo essersi saziati con il sangue e la carne delle loro vittime animali i cacciatori potevano accoppiarsi al termine di danze erotiche selvaggiamente eccitanti” (ibidem, nota 112, Baccanali, pg 152-3).
Pertanto, se la stregoneria antropologicamente non è che la persistenza di ataviche memorie di questi rituali della fertilità pagani ancestrali, e accettiamo che il rave scatenato a base di musica tribal-elettronica e sostanze psicotrope al posto del vino ne sia la rivisitazione moderna, ecco saldato il legame fra due situazioni narrative apparentemente distanti fra loro.
A questo punto, però, entra in gioco un altro elemento: nel Suspiria 2018 Guadagnino allinea numerosi riferimenti alla storia della Germania, dal nazismo al 1977 in cui si ambienta il suo film. Riferimenti sui quali vi offriamo le riflessioni sedimentate dall’amico Sandro Battisti dopo la visione del film.
---
Suspiria è un’opera pervasa dal senso lurido e opprimente del Nazismo; di quello magico, di quello che a fatica viene riconosciuto come fondante di buona parte della inumana dottrina sociale ed economica attuale. Sbocciato circa cento anni fa, si ramificava nella società tedesca – ma non solo – partendo dai culti ancestrali delle antiche terre barbare centroeuropee, credenze che furono coltivate fin dal XVIII secolo per contrastare l’Illuminismo che scacciava via i culti irrazionali di un tempo lontanissimo, immemore, razionalmente mai esistito, frastagliati ricordi mitologici di teoremi risibili così balzani da provocare oggi un’ilarità irrefrenabile. Quell’accozzaglia di credenze ed epopee generò un mostro così spaventoso che a tutt’oggi la stessa parola che ne è nata, nazismo, produce un disgusto tale, una folle paura e rivoltante reazione da essere diventato un tabù semantico che Guadagnino, nelle sue manifestazioni più occulte, guarda dritto in faccia ed esorcizza usandone gli stessi percorsi magici.
Suspiria è quindi un film sul Nazismo magico, ne è pervaso in ogni istante, in ogni fotogramma e nel colore delle fredde giornate berlinesi. Il livido della luce solare esterna (assai simile a quella che si vede in Una giornata particolare, film anch’esso sul Nazifascismo) o quella che riluce negli interni della scuola di danza Tanz, ci sommerge in oltre due ore di proiezione ed è lo stessa del bunker di Berlino, dove Hitler e i suoi accoliti hanno trovato la morte, per lo più volontaria, suicida, allucinante nella sua crudezza sprezzante di ogni valore umano. La circolarità della storia di Suspiria è via via sempre più stringente, identifica la lotta al Nazismo rimasto vivo dopo la dilaniante fine della Seconda Guerra Mondiale con il terrorismo tedesco metà ’70, quello della banda Baader-Meinhoff, che nel film ricopre il ruolo tout-court di castigatore dei nazisti riciclati e inseriti nel nuovo sistema economico mondiale liberista, uomini divenuti irreprensibili e radicati nella società occidentale dove, è innegabile, quadri dirigenti e scienziati nazisti sono davvero confluiti a profusione alla fine della Seconda Guerra.
L’assunto che il Liberismo sia un erede non troppo lontano del Nazismo prende man mano forma nella dinamica di Guadagnino; è per questo che la Baader-Meinhoff uccide un bancario colluso col vecchio regime: è un fatto storico ed è presente nel film, esplicitato in modo secco e incontrovertibile. Patricia, uno dei personaggi chiave della storia del film, all’inizio decide di combattere la congrega di streghe del teatro Markos-Tanz (dal nome della fondatrice) in cui danza da primadonna, abbracciando l’ideale della lotta armata dei B-M; perché lo fa? Ma è ovvio, perché la compagnia di ballo affonda le sue origini negli anni finali del Nazismo, in quella terra cultuale dove i gerarchi del regime consultavano astrologi, occultisti, ciarlatani ed esoterici di ogni risma cercando la via d’uscita a una sconfitta terrificante che diveniva sempre più evidente.
Patricia, nella scena iniziale del film, osserva una manifestazione di protesta pro B-M, poi entra nello studio dello psichiatra Klemperer per l’ennesimo appuntamento e continua a raccontargli le sue angosce, le sue percezioni, le vessazioni psichiche che subisce nel Tanz dalle docenti che praticano, secondo lei, un culto stregato e satanico. Nello studio dello psichiatra, occhi e voci la cercano, la osservano; alcuni di quegli occhi sono della moglie di Klemperer, Anke, immortalata in una fotografia risalente ai tempi della guerra, prima che morisse. L’accusa di Patricia è quindi netta, decisa: dentro al Tanz ci sono delle streghe, dedite al culto della Madre Suspiriorum, una delle tre madri che governano il mondo da un’epoca talmente precristiana da non averne più memoria; i nazisti ci sguazzavano in questi culti arcaici, ma le tre madri ideate nella sceneggiatura originale da Argento e Daria Nicolodi possono ricordare il culto di Ecate.
Patricia cosa fa successivamente, dopo aver rivelato i suoi sospetti a Klemperer? Prova a fuggire dal Tanz, ma non le riesce perché nel frattempo è arrivata dagli States Susie Bannion, una promettente ballerina nata in una comunità mormone dell’Ohio la cui mamma – fa di nuovo capolino il culto della madre – è in fin di vita per una malattia che la rende incosciente. Susie fa un provino e, mentre Patricia viene rinchiusa con l’inganno in una stanza del Tanz, con un sublime transfert di gesti mutuati da Bowie e Crowley le disarticola il corpo, rendendola un bozzolo ancora vivo – un po’ come era diventato Frodo per Shelob nel Signore degli Anelli.
Bowie e Crowley fanno capolino in Suspiria, quindi. Il mago sembra sia stato presente più volte a Berlino negli anni ’30, in diretta interazione coi gerarchi nazisti; nella Seconda Guerra ha ricoperto ruoli ambigui anche nell’ambito dello spionaggio inglese e, soprattutto, ha avuto importanze fondamentali nei movimenti esoterici che si sono mossi sullo sfondo degli eventi storici del XX secolo. Bowie, dal suo canto, ha impresso una forte connotazione esoterica in alcuni suoi lavori musicali – BlackStar, il suo ultimo disco, è un tripudio di simboli, messaggi, significati evanescenti di concetti filosofici e trascendentali interpretabili dagli iniziati – e intorno alla metà ’70, proprio nel periodo in cui Guadagnino ha ambientato il film, è stato presente a Berlino insieme a Fassbinder e a Dario Argento per tracciare rotte esoteriche (QUI e QUI due link che illustrano molto bene le connessioni tra Crowley, Bowie, l’arte magica della danza e le scienze esoteriche).
Durante lo svolgimento del film si odono sospiri in sottofondo, echi di discorsi appena accennati, i sogni di Susie sono distorti da un senso di male e da una forma lucente di energia che sembra trascendentale, apparentemente epifanica; e invece è soltanto bassa magia che miete vittime e rende, agli occhi degli spettatori, lo spettacolo bieco delle streghe che dirigono la scuola, che avvolgono Susie in una tela che stringe ma non stritola. Miss Griffith, la più psicolabile delle streghe, arriva a suicidarsi con un coltello conficcato in gola. Perché?
Nel finale, accade l’inaspettato: durante il sabba della consacrazione di Markos, Susie diviene la Grande Madre ed evoca l’abisso per uccidere le streghe più bieche, salvando quelle che hanno avuto un senso di pietà quasi cristiana nei suoi riguardi. La poesia di un abisso apocalittico si coniuga ancora una volta col finale tragico del bunker di Berlino, dove a regnare era però una terrificante disumanità. Le danzatrici sopravvissute al sabba sembrano le ballerine di uno dei tanti show scemi della TV, il tripudio del Mercato rende schiavi ed ebeti gli affiliati del vomitevole mondo consumista; chi ha coscienza dell’abominio di quel mondo, invece, preferisce morire (“E tu, cosa desideri? - Morire…”).
La fine del film si ricollega con il suo inizio.
Nel campo di concentramento di Theresienstadt, al termine della guerra, Markos aveva vampirizzato Anke, ne aveva assorbito le fattezze psichiche; la stessa Anke viene usata per richiamare lo psichiatra nel cerchio ellittico del sabba finale del Tanz, elemento essenziale di un culto rivoltante volto a dare potenza alle sacerdotesse della Madre Suspiriorum: questo è ciò che sussurra Susie a un attonito Klemperer, risparmiato dal sabba per l’epilogo inatteso del rito. In un sussulto di struggente dolore gli racconta di come Anke sia morta di freddo, vittima dei nazisti e della Markos; l’oblio che dona allo psichiatra gli permetterà di sopravvivere all’enorme shock della rivelazione e degli eventi appena svoltisi.
Susie chiude il film impersonando il regista – ha una telecamera in mano – e mimando sugli occhi degli spettatori il gesto dell’oblio, alla fine di un turbinoso rito di purificazione – il film – in cui la Grande Madre è concepita come l’unico elemento salvifico dei nostri tempi, qualcosa di talmente arcaico da riuscire a combattere il male nazista che vive ancora nella nostra società liberista.
Guadagnino fa “politica” usando l’occultismo: è questa la chiave di lettura che mi sembra sfuggita ai più, ad alcuni in modo così clamoroso da far rumore. Il regista risolve il nostro dilemma contemporaneo – la paura di non aver vie d’uscita da una politica economica e sociale che schiavizza e dissolve ogni valore umano – usando i miti e l’energia arcaica, impiantando un rapporto sciamanico con le forze primordiali della Grande Madre, rivestendole di una pietas quasi cristiana e per questo ancora più potente che, però, annichiliscono sotto gli effetti della caduta del Muro di Berlino, rimanendo simboli di una energia creativa ribollente di bellezza sovrumana che potevano allontanare l’abisso in cui, come dementi, ci siamo invece cacciati.
Vampiri, goticismi, politica filoanarchica di estrema dissidenza verso il sistema, empatia verso il paganesimo, caustica e feroce condanna del Nazismo, ricerca dei valori dell’energia spirituale e delle forze elementali del cosmo: questo è Suspiria di Luca Guadagnino, reso mellifluo e commovente dalla poesia musicale estrema della colonna sonora di Thom Yorke, dei Radiohead. Sono sicuro che, per trovare tutti i significati che il regista ha disseminato nel film, non basteranno dieci visioni. Per ora possiamo elencare: il femminismo si discosta dal femminino e appare condannato nelle sue posizioni più intransigenti; le streghe non sono soltanto tornate, come recita l’adagio di Suspiria, in realtà non sono mai andate via, almeno dai tempi del Nazismo; gli atti di ribellione violenta non mutano il corso del nostro del mondo; Berlino appare come il centro occulto e politico del nostro universo europeo, almeno dal ‘900 fino a tutt’oggi; cos’altro aggiungete voi lettori?
L’orrore profondo è dato dal presente e dalle radici da cui è stato partorito; la falsa Grande Madre che ha prodotto il nostro tempo è orrenda e non c’è consapevolezza più sovversiva di questa mentre, all’alba di una colonizzazione stellare che fa tremare i polsi, ci accingiamo a esportare la nostra lordura e il marciume su mondi alieni, potenzialmente illibati e pregni della stessa energia della Grande Madre primordiale.
Questo Suspiria di Guadagnino è il film di cui si parlerà per un bel po’ di anni, una miniera inesauribile di significati, messaggi, perle di citazioni e poesia vibrante che sfiora la magia nera di un mondo che, ahimè, esiste.
---
“Vampiri” e “ciarlatani”, chiosa Sandro. Ma forse sarebbe più corretto riferirsi ai licantropi, se è vero – come apprendiamo sempre dal saggio di Eisler – che Hitler, cultore dell’esoterismo e gran sostenitore dei rituali ancestrali della Germania pagana, come la famigerata caccia selvaggia di Odino e del suo seguito, dipinta anche da Peter N. Arbo (1872, qui a lato*) “era ai lupi mannari che pensava quando, nel suo programma per l’educazione della Hitlerjugend affermava: ‘il giovane dev’essere indifferente al dolore. In lui non devono esserci debolezza o fragilità” (ibidem, pg. 38). E che le SS avevano costituito un corpo speciale di “lupe mannare” col compito di compiere assalti di sorpresa contro i reparti alleati invasori (ibid., nota 130, L’organizzazione tedesca del lupo mannaro, pg 195-6).
E col contributo del visionario antropologo britannico riusciamo anche a saldare occultismo atavico e scavo nella storia della barbarie politica, prima di risalire a rotta di collo alle sue più moderne declinazioni da “rave di morte” del “terrorista sensoriale” franco argentino Noé. Gustosa assonanza finale che entrambi i registi abbiano affidato le proprie visioni paniche a colonne sonore gelidamente elettroniche (l’ambient di Yorke ricordata da Battisti, la martellante compilation techno di Climax), eleggendola ufficialmente a “nuova psichedelia” del XXI secolo.
A voi il nudo, sanguinante banchetto.
Sandro Battisti & Mario G
* N.B.: è appena il caso di ricordare che il dipinto Åsgårdsreien (Caccia Selvaggia, appunto) di Arbo ha fornito l'artwork di copertina dell'album Blood Fire Death, del gruppo black metal svedese Bathory (1988), mentre lo stesso soggetto dipinto da Franz von Stuck (1899) sta significativamente in copertina al romanzo Il richiamo del corno di Sarban (Adelphi, 2015), ucronia del 1952 (quindi precedente L'uomo nell'alto castello di Dick) in cui il protagonista si sveglia dalla fuga da un campo di prigionia tedesco nel 1943 in un ospedale gestito dai nazisti, un secolo dopo la vittoria della Seconda Guerra Mondiale da parte del Reich.