Domenica 29 marzo, al concerto di Lili Refrain all’Arci Blob, non abbiamo avuto modo di approfondire con lei i discorsi esoterici: ma Kawax, suo ultimo album del 2013 (pubblicato da Subsound Records in cd e da Sangue Dischi in lussuoso vinile che valorizza i disegni dell’argentina Fernanda Veron oltre che i suoni analogici) significa “un percorso sciamanico che dal buio va verso la luce”, spiega lei sorridente.
Io lo scopro solo ora e me ne pento, perché trovo che la definizione valga anche per il suo ruolo nella musica italiana, un’illuminazione nel buio: Kawax (cover a destra) è uno degli album più entusiasmanti e originali della musica dello Stivale. E la sua autrice una musicista dotatissima che molte sorprese ci riserverà: fedele alla sua formula-griffe voce & chitarra elettrica, Lili maneggia entrambe con consumata maestria, sia in studio che dal vivo, riuscendo a non farci mancare nulla attraverso un ampio utilizzo di echi, delay, riverberi e autocampionamenti in diretta “senza alcun ausilio di computer o tracce pre-registrate”.
Neanche quando incendia tutta sola lo stanzone adibito ai concerti del piccolo Arci di Arcore con un’intensa one girl band performance, durante la quale scende dal palchetto in mezzo al pubblico, ci soffia in faccia le piume rosse del suo boa (che vedete nelle foto a lato), strapazzando le corde della sua Gibson in piedi su una seggiola come una moderna Hendrix indemoniata (come abbiamo cercato di rendere nella psichedelica sequenza di foto mosse qui sotto, potete ammirare anche la galleria qui).
Manovrando sempre da sola pedali, manopole ed effetti (vedi foto qui sotto a destra), Lili costruisce così la sua cattedrale sonora, stratificando arditamente minimalismo, psichedelica da Interstellar Overdrive, reminescenze classiche (Bach?) e pagan folk, distorsionida metal concettuale in un sound personalissimo, sperimentale quanto bluesy, dark senza manierismi (e mossette alla Emilie Autumn per intenderci).
Le sue notevoli doti consentono a Lili di spaziare con le corde vocali da un’impostazione lirica alle urla di Diamanda Galàs (cui s’ispira nell’uso degli effetti sulla voce ma anche nel più impervio controllo di registri diversi, da Tim Buckley all’opera), ricordandoci ora guizzi di Bjork ora malinconie di Lisa Gerrard o della Gitane Demone solista, talvolta corali barocchi alla Miranda Sex Garden.
E strapazzando meravigliosamente un classico immortale come Nature Boy di Eden Ahbez (pur scusandosi di non aver voce e quindi di non poter usare il registro lirico ma di “doverla fare alla Amanda Lear”!), come con la chitarra cita il riff di Paint It Black degli Stones (in Kowox).
Sull’album (il cui lato B è prevalentemente strumentale) compaiono anche per la prima volta degli ospiti: sono gli Inferno Sci-Fi Grind’n’Roll e Roberto Cippitelli, bassista degli Juggernaut, altra notevole band della Subsound sul cui nuovo Trama torniamo presto.
Un ottimo concerto “da camera” in un locale piccolo e raccolto, per rappresentare un album monumentale, che non esito a definire uno dei più importanti e originali degli ultimi anni della musica italiana. Che si conferma ricca di interessanti sorprese ben nascoste, come ci faceva il Sub Terra di Eduardo Vitolo, che nell’ultimo capitolo antologizzava un sacco di dichiarazioni di stima per band italiane da parte di parecchi numi dell’underground internazionale, fra cui Mitch Harris dei Napalm Death, Eric Foster dei Voivod, Clive Jones dei Black Widow o Joe Hasselvander dei Pentagram.
Peccato che, per non incassarla postuma come quasi sempre accade, anche Lili dovrà cercarsela perlopiù all’estero; dove peraltro sembrano pronti ad accoglierla, visto il lusinghiero punteggio che le ha assegnato l’influente sito tedesco Metal.de.
Spesso per un disco medio si versano fiumi di parole e di paragoni. Per uno superlativo poi sembra invece di faticare a trovarle. O forse è solo che ne bastano molte meno. Kawax di Lili Refrain è uno di questi casi. Se non è già vostro, procuratevelo senza esitazione. E se suona dalle vostre parti non fatevela scappare.
Mario G
P.S.: a parte la cover dell’album (by Fernanda Veron, v. sopra), tutte le foto accanto all’articolo e nella gallery dedicata sono state scattate da Mario Gazzola il 29 marzo 2015 all’Arci Blob di Arcore.