Viene da chiedersi perché l'horror antologico degli ultimi tempi sia sovente più appetitoso del lungometraggio tradizionale, e viene da chiedersi per quale motivo questo tipo di cinema sia puntualmente snobbato dalla distribuzione. Scomodare il passepartout del “siamo in Italia, e questo è quanto” è ancora il modo migliore per liquidare la seconda questione, mentre sulla prima, invece, le ipotesi sono più complesse, ma sempre riconducibili al fatto che (forse) un regista che lavora in piccolo ha meno remore produttive di uno che lavora in grande.
The ABCs of Death pare confermare questa visione delle cose, anche considerando che i ventisei registi convocati da Ant Timpson e Tim League (tutti con esperienza certificata nel genere) si sono dovuti arrabattare con appena cinquemila dollari a testa per realizzare i rispettivi lavori. Il risultato è di ventisei corti, ciascuno di lunghezza non superiore ai cinque minuti, e il cui titolo altro non è che un'unica parola iniziante per una diversa lettera dell'alfabeto. Si parte con la A is for Apocalypse (foto) per finire con la Z is for Zetsumetsu (Estinzione, in giapponese), l'Alfa e l'Omega dell'orrore.
A parte queste ovvie limitazioni, ai cineasti è stata concessa massima libertà espressiva, essendo essi stessi consapevoli che la loro regia avrebbe potuto beneficiare di ogni tipo di linguaggio, dal found footage all'animazione alle contaminazioni con altri generi. Per fortuna, verrebbe da dire, e infatti The ABC od Death è un banchetto luculliano di atrocità, perversioni, violenze arzigogolate e barocche, in cui non conta tanto il messaggio quanto le modalità dell'enunciato, in una dichiarazione di stile per la quale dire le cose è sempre meno importante che saperle divulgare con la necessaria maleducazione.
In B is for Bigfoot di Adrian Garcia Bogliano, invece, l'arte dell'inganno spetta a una coppia di giovanotti che approfittano dell'assenza dei genitori per godersi l'intimità; peccato ci sia la nipotina guastafeste che non ne vuole sapere di andare a letto. Così i due la terrorizzano con la storia del Bigfoot, questo essere tremendo e abominevole che uccide chi non si corica dopo le otto di sera. La bambina se la fa sotto, e mentre finge di dormire per non incappare nelle ire del mostro, un altro mostro tremendamente umano (il netturbino, nel caso specifico) bussa alla porta dei malcapitati e ne fa sanguinosa mattanza.
C is for Cycle di Ernesto Diaz Espinoza tratta di un uomo che ogni giorno penetra in un mondo parallelo, identico al suo, in cui deve uccidere se stesso e sbarazzarsi del cadavere gettandolo oltre la porta magica che a quello stesso mondo parallelo conduce. Il senso sfugge, ma è bellissimo ugualmente. D is for Dogfight di Marcel Sarmiento è incentrato su un Fight Club in cui burberi lottatori devono sopravvivere a cani scatenati, almeno fino a quando il pugilatore di turno non si ritrova a combattere contro il proprio “cucciolo” smarrito anni prima (vedi foto qui a sinistra).
H is for Hydro-Electric Diffusion di Thomas Malling è incentrato su un aviatore britannico della Seconda Guerra Mondiale alle prese con una diabolica spogliarellista tedesca: il film è una commedia grottesca interpretata da mutanti metà uomini e metà animali (cane il pilota, volpe la stripteaser, vedi foto a destra), che finirà tra acrobatiche torture e scariche di cromata elettricità.
Hélène Cattet e Bruno Forzani rifanno Amer (anche un po' pedissequamente, a dire il vero) in O is for Orgasm, mentre Srdjan Spasojevic, quello di A Serbian Film, filma in R is for Removed la vicenda surreale di uomo la cui pelle viene utilizzata per fabbricare pellicola 35mm. A un certo punto questa consapevolissima cavia umana scappa dal laboratorio di cui è prigioniera, si rifugia in un deposito per vagoni ferroviari e comincia a piovere sangue. Valli a capire, i serbi.
Ben Wheatley filma la morte di un vampiro con una soggettiva narrata in piano-sequenza in U is for Unearthed, mentre Jake West in S is for Speed omaggia Tarantino e tutto il b-movie da drive-in dei bei tempi d'oro, e ben quattro episodi sono ambientati su un cesso (E is for Exterminate di Angela Bettis, su un uomo infettato da un ragno, M is for Miscarriage di Ti West, su una donna che intasa lo scarico gettandovi il feto appena abortito, K is for Klutz di Anders Morgenthaler, disegno animato su una tipa uccisa dallo stronzo che ha appena “partorito” e T is for Toilet di Lee Hardcastle, altro cartone splatter su un bambino che esorcizza la paura di utilizzare il gabinetto sognandosi la famiglia divorata da un mostro a forma di water).
Gli asiatici rappresentano invece un regno a sé, come è facile supporre, a partire dalle fantasie scoreggione di F is for Fart (Noboru Iguchi), che vedono una liceale un po' lesbica salvata dalle puzze della sua insegnante, mentre poco distante una imprecisabile sciagura climatica uccide tutte le sue compagne tra fumo di zolfo ed esalazioni mefitiche; il migliore sembra comunque essere l'Hostel versione indonesiana di Timo Tjahjanto che, in L is for Libido, inscena la tragica sorte di due uomini immobilizzati a una poltrona e costretti a una gara di masturbazione ossessiva (foto sopra a sinistra): mente perversa dell'operazione, alcuni aristocratici in abiti eleganti e maschere alla Eyes Wide Shut, che allestiscono macabri spettacoli erotici onde favorire le pratiche onaniste dei partecipanti. A chi eiacula per primo sarà concesso di rimanere in vita, ma soltanto per essere reclutato nel prossimo round in cui dovrà eccitarsi dinnanzi a donne mutilate (foto qui a destra) e atti di pedofilia belli e buoni. Roba da vomitare.
Fortuna che a strapparci un sorriso ci pensa Yoshihiro Nishimura che nel già citato Z is for Zetsumetsu fa convivere naziste giapponesi con giganteschi falli muniti di pungiglione e donne discinte che sparano verdura dalla vagina per farci il minestrone. C'è pure una citazione da Il dottor Stranamore, giusto per non farsi mancare nulla. La fantascienza più tradizionale è riservata però al futuristico V is for Vagitus di Kaare Andrews, con giganteschi robot e scenografie decadenti in salsa suburbana, mentre il bravo Xavier Gens ci conduce con X is for XXL nella disgrazia tutta contemporanea di una cicciona (foto qui a sinistra) che, discriminata ogni giorno per il suo aspetto fisico, si squarcia a coltellate pur di affusolarsi come le modelle tanto invidiate.
The ABC of Death è un film cafoncello, insolente e non di rado asimmetrico e strampalato. È come un bambino sorpreso a giocare con la propria merda, che ride tronfio e beato nonostante le rimostranze dei genitori ripugnati. Fregandosene altamente del loro giudizio, come di quello di chi preferisce il più accomodante horror da sala.
Qui non c'è spazio per vampiri fighetti o adolescenti inseguite da improbabili maniaci mascherati: è l'oscenità a far cassa, un'oscenità altezzosa e al contempo estremamente elitaria, ampollosa e quasi sempre tremendamente compiaciuta. Certo, la scuola inaugurata dai vari Theatre Bizarre e proseguita con Little Deaths e i quasi coevi V/H/S parte prima e seconda potrebbe rischiare, almeno in via del tutto ipotetica, di farsi maniera, di diventare qualcosa di affettato e tirato a pomice, ma dinnanzi a un panorama sempre più vergognoso e intimidito dalle sperimentazioni cinematografiche, avere questi Arcimboldo della paura non può che essere, almeno per ora, motivo di orgoglio.
Marco Marchetti