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La sottile striscia di neve, mi piace stenderla e separarla e mi piace che sia affilata come la lama di un coltello orientale. Con questo semplice gesto delle dita io separo il cosmo in due, io apro lo spazio, io creo una frontiera, e solo dove ci sono frontiere ci sono contatti. Il gesto successivo è respirare la frontiera, la bianca linea di fiocchi di neve imprevisti, buttarsela dentro, farsi frontiera. Ogni movimento allora è uno scavare e un solcare frontiere, un abbatterle con un colpo di ciglia. Tra me e l’aria, tra me e ciò che mi sta intorno si gioca un nuovo gioco, il mio unico senso è la cinetica della pelle, la cinetica dello scheletro, magia di dita e scapole di confine. Sono lama, affilato come lama, nessuno può guardare una lama, la lama riflette e basta, la lama non ha occhi e non si porge ad occhi. Solo contatti, solo strappi e salti di frontiere. Il fatto è che ci voleva denaro per questo. Denaro per farsi frontiera. E io non ne avevo mai abbastanza. Avevo messo in vendita il mio ricettacolo di nervi ed ossa, e questo non faceva che spingermi sempre più a desiderare di essere frontiera. Mettere in vendita la carne era solo una falsità. Io non vendevo me stesso, io ero solo nella frontiera. Quello che vendevo era un vestito, un involucro. Nessuno sguardo mi ha mai sfiorato, perché nessuno sguardo è capace di toccare. Solo superfici e mai frontiere. A essere sinceri non mi sono mai prostituito in nessun senso.
Mi avrebbero pagato solo alla fine del ciclo. Mi avrebbero pagato davvero bene, ma non subito solo alla fine. Questo era il vero prezzo da pagare, l’”inconveniente”. Tirare avanti con spiccioli a discrezione del capo. Dovevi sempre chiedere e sempre tornare. Era un tarlo che mi pulsava nelle vene, la pellicina che tiri via con i denti e subito dopo ricresce. Il castello di Armell, come lo chiamavamo tutti, non mi piaceva. Regole ferree e assoluta riservatezza. Mi faceva dare di matto, mi sentivo in prigione. Non era il lavoro, no, anzi quello mi piaceva pure, erano le ore in cui non si lavorava, le ore di attesa, le ore di solitudine nei lunghi corridoi, nella mia stanza da letto. E allora, appena potevo sgusciavo via e andavo a cercare la striscia di neve che mi faceva frontiera.
Mi infilavo nelle vie piene di gente, come un principe in incognito, e poi giù di corsa nella città bassa, giù nelle vie che odorano spaghetti cinesi in brodo e mandorle caramellate, giù nelle vie dei night proibiti. Era lì che incontravo i miei contatti, i miei obiettivi. Compravo a credito il più delle volte. Ora dall’uno ora dall’altro. Ogni volta si srotola davanti ai miei occhi lo stesso cartoon: lo adocchi al bancone, lo inviti a bere, lui ti capisce al volo, subodora l’affare, sta al gioco, diventate amici, lo convinci a farti credito, una volta, due, magari qualcuna in più, tu hai bisogno di lui e lui è lì, sempre fidato, sempre sorridente, ti offre pure da bere adesso e tu te ne scoli qualcuno di troppo, fino a quando ti dice: “Amico, questa è l’ultima, mi devi un sacco di soldi”. E lo vedi dai suoi occhi che non mente, che puoi solo scappare il più veloce possibile e trovarti un altro night e sperare che quello non ci metta mai piede. Per fortuna si dividono il territorio come un tempo ci si dividevano le strade del monopoli. Per fortuna la città è vasta e ancora più vasto è il regno dei suoi sottosuoli, la sua pancia pulsante di lascivia, alcool, oblio. Di tutto quello che il giorno maschera e nasconde. Di tutto quello che il giorno non può più accogliere.
Quella sera qualcosa ti aveva detto, “non uscire Eric, non andare lì stasera, lascia stare”. Anche Sarah te lo ha aveva detto, urlato, mentre bussava furiosa alle toilettes dove tu iniziavi ad assaporare, pregustare la tua trasformazione. Ma tu non l’hai ascoltata la gattina dai capelli di fuoco, anche se di tanto in tanto ti piaceva ascoltarla, ma non lì, non nella casa. E così ci sei andato allo Stardust e mentre trangugi l’ennesimo drink con l’ennesimo dealer aspettando il rituale dell’ennesimo momento in cui ti dirà: “amico, niente di personale con te, lo so che sei un bravo ragazzo, uno di parola, però va avanti da troppo, lo sai, questa è l’ultima”, lo vedi avanzare tra i tubicini argentati e i sexy ologrammi danzanti. Di tutti è proprio quello che meno vorresti incontrare, quello che ti ha voluto più “bene”, quello che ora ti odia di più.
Bruci il tempo come l’alcool brucia i muscoli e i nervi sotto la pelle. Sei in piedi un lampo e ti lanci nella folla, verso la pista da ballo, la attraversi slalomando, ancheggiando come un’anguilla.
Ti mancano solo le due pistole, una per ogni mano, e gli occhiali da sole portati anche di notte, e quella musica cinese struggente per sentirti come Chow Yun Fat in The Killer. Anche tu li senti gli occhi del nemico sulla pelle. È una deformazione a cui ti ha abituato il tuo lavoro. Puoi stare di spalle, puoi essere un dito o una nuca, eppure la pelle li sente gli occhi puntati addosso come una pistola pronta a fare fuoco. Ti apri un varco tra le braccia nude e le spalle sudate, tra pellami, metalli e sete, e scivoli verso il fondo, nella zona d’ombra. Lo semini per un istante e senza esitare ti getti a capofitto nella prima porta che ti si para davanti. Ed è così che entri nel bagno delle signore, salvi la pellaccia e spalanchi davanti a te le porte di una nuova e diversa perdizione.
La ragazza è lì davanti al grande specchio ovale, a seni nudi e si guarda con aria smarrita qualcosa sotto il seno destro. Il rumore di passi affannosi e bicchieri rotti la fa sussultare e solo allora si accorge di te, mentre lui si avvicina, il tuo nemico, urla e sbraita e ti cerca in ogni dove. Metti un dito sulle labbra e scivoli nel bagno per nasconderti. Lei non si copre, ti guarda prima indispettita, poi curiosa. Trattieni il fiato, immobile. La tua vita è nelle sue mani.
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Non ti eri mai accorta di quel neo, proprio lì sotto il seno destro, quella piccola voglia rossa che ora vedi riflessa nella tua immagine allo specchio. Le luci delle lussuose toilettes ti sfiorano la pelle come carezze, fanno brillare il tuo vestito blu notte come una notte stellata. Le spalline posano inermi sul marmo bianco del lavandino, mentre tu continui con stupore ad osservare quella macchia. Come è possibile che tu non l’abbia mai notata? È stata sempre lì senza che tu te ne accorgessi oppure è nata e cresciuta solo da poco? E se è così, quando ha iniziato a crescere? E perché proprio ora e non prima, non dopo? Un neo o una voglia presenti sin dalla nascita sono comprensibili, certo, ma come interpretare questa macchia che se ne sta lì accucciata come un fiore di carne sotto il seno? E poi non sei per niente sicura che la macchia non sia stata lì già da prima. Forse è lì da sempre, solo che tu non te ne sei accorta. Mai. Ma no, questo non è possibile, se è lì da sempre qualcuno l’avrebbe vista, e te l’avrebbe detto, te l’avrebbe fatta notare. O forse no, magari, non l’avrebbe detto per discrezione, per mancanza di confidenza. È sempre la stessa storia, oggi non si hanno più relazioni come una volta. Non ci si può più fidare come una volta. E poi chi sopporterebbe più al giorno d’oggi di condividere certe cose? Ma no, vedi come ragioni contorto. Se c’era te lo avrebbero detto. Non è mica una cosa così intima un neo. Una macchia, sì, però. Magari di quelle che devono bruciare. Quelle che nessuno nomina. Ma sei poi sicura che ci sia? Ecco la tocchi, la sfiori, ti assicuri ancora una volta che sia lì davvero, che non sia un’allucinazione indotta dalla Luna Rossa. In effetti potrebbe essere solo il segno della notte trascorsa, dello scambio di saliva, sudore e sperma della notte trascorsa.
Era stato buffo quella notte con Galad. Era tutto rosso paonazzo, sembrava avesse mille braccia, una per ogni centimetro della tua pelle e piccoli denti e piccole unghie da felino impaurito. Si vedeva proprio che non era abituato. Eppure non è poi così giovane. Che sia uno dei “rimescolati”? Oddio, allora esistono davvero? Possibile che tu, proprio tu ne hai incontrato uno? Era venuto nel negozio dove lavori per farsi confezionare un’essenza floreale. Cercava qualcosa di speciale, per una donna senza nome. Già questo è insolito. I clienti preferiscono darti i dati delle persone in modo da poter costruire un regalo più personale, più preciso, qualcosa che sia fatto su misura ai loro gusti. In modo da togliersi dall’impaccio di scegliere qualcosa senza essere certi del risultato. Ma lui no. Lui voleva scegliere. E poi era impacciato. Timido. Aveva un odore pulito. Ti era piaciuto subito. E poi ti aveva invitato per un drink. E poi l’avevi fatto salire e lui aveva affondato le dita tra i tuoi capelli con fare avido. Aveva uno sguardo strano, dopo. Uno sguardo che hai già visto su qualcuno ma non riesci a ricordare. Ti ha trovato… “bella”? Se è così, deve essere per forza un “rimescolato”. Forse avresti dovuto denunciarlo subito. Forse dovresti farlo domani. È solo che… che è piacevole vedere qualcuno che ti guarda in quel modo. Ti fa sentire bene. Senti come sono morbidi i tuoi capelli e come è morbida la tua pelle? Guarda com’è bianca. Risalti come una statua sul décor in stile greco-romano del bagno. Rosso, nero e oro. Stipiti massicci, superfici levigate, bassorilievi di draghi e fanciulle nude sulle rocce. Ti adatti al décor, Marianne, molto più di quanto tu creda. Hai sete, ecco ti mordi le labbra per la sete. E poi diventano più rosse, di un rosso naturale. Hai bevuto troppo. Come sempre. Chiudi gli occhi. Riaprili. Il neo è ancora là, infondo non è poi così terribile. E poi ha un suo carisma. È attraente infondo. Potrebbe essere un “segno particolare” che hai fin dalla nascita. Ha la forma di una piccola stella. Sì, hai deciso. Quel neo ti appartiene da sempre. Quel neo è sempre stato lì e sarà sempre lì. Puoi sorridere ora e mostrare allo specchio i tuoi deliziosi candidi dentini. E poi puoi rivestirti e uscire e farti offrire un altro drink.
Ma fuori accade qualcosa. Vetri in pezzi e urla e battere di piedi. È come uno schiaffo, come una manciata d’acqua gelida sulla faccia accaldata. È un brivido lungo la schiena e un profumo acre. Non sei sola, Marianne. Qualcuno ti spia e tu non te ne sei accorta. Non l’hai visto entrare. E quel qualcuno non è una donna. Ma un uomo, giovane, ma non giovanissimo. Si mette le dita sulle labbra violacee e ti guarda con occhi azzurri rossi e dilatati. E tu rimani immobile. Perché non ti muovi?
Lo osservi mentre scivola nel bagno, sale sul water e si accuccia. Senti il suo respiro. Senti che non ha un profumo, ma un odore. Un odore particolare. Odora di polvere bianca, deve essere questo. Lasci giù la spallina, non ti copri, i passi sono vicini, la porta si spalanca. La nudità è la tua arma. La tua nudità è la sua arma. L’uomo è alto e largo come un macigno, vestito coloniale, pelle morbida color caffelatte. Ti fissa e gli tremano le mani ingioiellate e la pistola che stringe nella sinistra come portasse un ombrello. Blatera scuse, tu continui a guardarlo gelida e irritata e non ti copri. Senti il suo imbarazzo che cresce, non osa entrare, non osa guardare. E tu non ti muovi. E quando formula la domanda fatidica, se è entrato qualcuno, lo guardi con tutto il disprezzo possibile e gli gridi “nessuno, a parte te”. Ed è lì che vinci. Che lui esce e tu gli salvi la vita a quell’altro. E tu riprendi a guardarti allo specchio. Passa qualche minuto. Lui respira appena. Spruzzi profumo nell’aria. Il pericolo è passato. Ti deve la vita. Come lo guarderai ora? Come ti guarderai lui? L’adrenalina ha fatto svanire l’effetto dell’alcool. Non ti importa più niente del neo. Adesso c’è una sola cosa che ti importa. La faccia con cui quell’uomo uscirà da quella porta e ti guarderà.