La nuova “odissea spaziale” di
Alfonso Cuarón coinvolge con un'ottima suspense, oltre ad essere una delle poche esperienze visive 3D davvero "totalizzanti" del cinema recente.
“For here am I floating / round my tin can
Far above the Moon
Planet Earth is blue / And there's nothing I can do”
(David Bowie, Space Oddity)
Diciamolo subito senza tanti giri di parole: Gravity è già – se non IL – sicuramente uno dei film dell’annata 2013.
Se la missione del cinema è “il fantastico e il maraviglioso”, la seconda odissea del regista messicano nel genere fantascientifico – stavolta una space odissey a tutto tondo – è una delle poche pellicole degli ultimi anni che personalmente posso dire d’aver seguito dall’inizio alla fine a bocca aperta come un bambino.
Senza un istante di noia o stasi, alternando l’autentica suspense per le sorti della malcapitata
Sandra Bullock dispersa nello spazio alla sorpresa per le geniali visualizzazioni (in un 3D per una volta non inutile) di come sia realmente, fisicamente pazzesco muoversi, agire in assenza di gravità. Nell’agghiacciante vuoto cosmico, dove qualunque pur minima spinta è in grado di spedirti via, in un moto inarrestabile senza attriti, lontano da qualsiasi approdo o aiuto umano (ammesso d’averne ancora, dopo un pioggia di letali detriti di satelliti tritati).
Questa è la reale fonte di terrore di
Gravity, un film “di fantascienza” che – nello sviluppo di un’idea di fantasia, ossia l’incidente durante una missione di ricerca che mette in pericolo la vita della dottoressa Ryan-Bullock, medico, al suo primo viaggio nello spazio – si basa unicamente sulla “scienza”, cioè sulla fisica reale, senza ricorrere ad alcuna trovata effettivamente “fantascientifica”: non ci sono minacce aliene, tecnologie futuribili, scoperte grandiose
gone wrong; tutto quel che si vede nel film corrisponde a ciò che già orbita sopra le nostre teste, satelliti americani, russi, cinesi… più o meno: la vera astronauta
Samantha Cristoforetti annota nel
suo blog una serie di “spaziali incongruenze” del film (leggetelo, è molto interessante, anche se quale film non ne contiene?), che peraltro lei stessa riconosce non danneggiare la presa e il pathos dell’opera.
Già a pochi minuti dall’inizio si entra nel vivo del dramma e, dopo solo un paio di immagini orrorifiche (i compagni di missione fatti a pezzi dalla pioggia di detriti cosmici), tutto il resto dei 92’ del film (finalmente un regista che non ha bisogno di un epos da oltre due ore per sviluppare la sua storia!) è stretto addosso all’avventura nel senso classico dell’”astronauta per caso” Bullock, la sua lotta per la sopravvivenza in un ambiente in cui già più di 40 anni fa avevamo visto che si galleggia, ma nessuno finora ci aveva fatto “toccare con mano” con che difficoltà e che rischi di morire ad ogni apertura di boccaporto.
Cosa non c’è in
Gravity? Secondo me, a dispetto di quanto letto in giro, manca un po’ quel coté filosofico/teologico che animava il suo precedente capolavoro,
I Figli degli Uomini.
In questo
Gravity NON è “il nuovo
2001: Odissea nello Spazio”, come si tende a definirlo: perché non basta avere sulla terra una figlia morta per dare al film la profondità di riflessione sulla vita nell’universo del capolavoro di
Kubrick, né quella sull’eterno ritorno della memoria del contemporaneo
Solaris.
Gravity è – come lo definisce giustamente Alice Cucchetti su Nocturno di settembre – un survivor movie, cui il deuteragonista George Clooney (foto qui a destra, che sorprende due volte, con la drammatica sparizione prima di metà film e con una spiazzante rentrée onirica) offre (anche se colla consueta ironia piaciona) qualche riflessione sullo spirito di sopravvivenza, che ci anima anche quando riteniamo d’aver perso tutto e di non avere più motivi per vivere.
Il resto è pura adrenalina “sotto vuoto”. Ma, ragazzi, che adrenalina! E, alla faccia di chi sdegna programmaticamente la computer grafica e il 3D in favore degli effetti vintage, che esperienza visiva!
Dal punto di vista puramente visuale – non solo il 3D ma la gestione degli spazi, dei non-spazi, delle prospettive e dei punti di vista impensabili – pur senza portarci a più di 600 km dal buon vecchio “pianeta azzurro”, Gravity è il vero, nuovo passo avanti del cinema di fantascienza dopo Avatar.
Mario G