Un minatore pieno di rabbia si ribella alla corruzione dei capi villaggio e, vedendo frustrate le sue aspirazioni di giustizia, fa una strage a fucilate.
Un emigrante, di ritorno a casa per il Capodanno, piuttosto che rassegnarsi alla grigia monotonia della vita domestica compie una rapina in strada uccidendo due sconosciuti a colpi di pistola.
La sua amante lo lascia e diventa receptionist in una sauna ma, molestata da un ricco cliente, a sua volta punirà quest’ultimo senza pietà a coltellate, con dispendio di sangue.
Un giovane operaio, punito per aver causato un incidente a un collega semplicemente parlottando, cambia lavoro nella speranza di migliorare la sua vita. Finirà amaramente in un volo dal balcone.
Quattro persone, quattro sconfitti in altrettante diverse regioni del pianeta-Cina, “quattro fatti realmente accaduti e noti a tutti”, spiega il regista Jia ZhangKe, già Leone d’Oro con il precedente Still Life, ora premio alla sceneggiatura a Cannes 2013 per questo A Touch Of Sin (accanto una locandina internazionale, in apertura quella italiana).
Che sceglie un titolo pulp nell’intento di offrirci – così viene presentata la pellicola – una riflessione sulla Cina contemporanea, su come un gigante dell’economia viene lentamente corroso dalla corruzione, dal naufragio dei valori tradizionali nel sopruso sistematico del neomercantilismo, con un solo capolinea: una violenza cieca e disperata. Circondata, preparata da dialoghi asciutti e minimali, scenari squallidi e nebbiosi, un gran senso di solitudine. Sembra la Finlandia di Kaurismaki ma con ancor meno ironia, o le Fiandre di Bruno Dumont.
Non c’è redenzione, nella Cina di ZhangKe, nessuno conta: se non sei ricco sei uno schiavo o una puttana, nel villaggio o alla catena di montaggio. Ci si inchina o ci si vende ai clienti facoltosi nella vetrina finto-lusso di un hotel plastificato (come nella patetica marcetta delle sexy cameriere nella foto qui a destra). O puoi pagare o sei la merce in vendita, tertium non datur. L’alternativa è solo il brigantaggio ai danni del primo che passa, homo homini lupus.
Detto così – e soprattutto ripreso con le immagini spoglie e veristiche cui s’affida il regista dello Shanxi (dov’è ambientata la prima storia) – sembrerebbe un quadro di neorealismo tragico, una sorta di mini ciclo dei Vinti verghiani, dark side della fase di boom economico che sta attraversando la Cina attuale, in transizione tra un passato rurale di catapecchie, viottoli sterrati in mezzo a oceani di campagna desolata, o metropoli della disperazione esplose troppo in fretta addosso ai loro minuscoli abitanti sottomessi al sistema.
Però… c’è un però. Il “pulp” non è solo nel titolo: percorre tutto il film, quasi ogni episodio, con ammazzamenti brutali e spruzzi di sangue che non riesci a non associare alla vigente moda tarantiniana mondiale (o, se preferite, all’omologo gusto dell’estremo splatter dell’Est dei Miike o dei Park Chan-wok). Invero non c’è spettacolarità, cinefilia, fumettismo, azione rocambolesca, violenza grafica. Tuttavia non si riesce a non pensare che, in una messinscena appunto così neorealistica, il regista abbia voluto in qualche modo girare le storie che ci spiega “vere” con uno sguardo in un certo senso “alla moda”.
Ecco perché abbiamo coniato l’ossimoro di neorealismo pulp. Che rimane però non ben risolto dalla pur premiata sceneggiatura, scritta dallo stesso regista, che tenta per le oltre due ore, intense e tracimanti, di proiezione, di saldare tra loro quattro storie (o scorci di realtà o episodi di popolare cronaca nera) che hanno ben poco in comune se non l'esplosione incontrollata, e spesso poco giustificata, di una violenza cieca e brutale. A questo proposito, forse il capitolo più riuscito è il primo, che parte come un film di rivendicazione sociale in salsa splatter, e si conclude come un moderno western alla Peckinpah, sullo sfondo caliginoso di un villaggio di campagna ormai spopolato.
La Cina di oggi scorre anche negli altri tre lavori, ma il tentativo di incatenarli l'uno all'altro è affidato soltanto, in modo forse un po' troppo ingenuo, a un personaggio minore (un tizio in motoretta nell'incipit, che impallina un gruppuscolo di manigoldi armati di accette) che diviene protagonista della puntata successiva. E così via, in una logica barbina che presupporrebbe un'idea di consequenzialità, ma che invece resta sospesa tra le maglie di una scrittura certo non sciatta, ma comunque indecisa.
Verrebbe da chiedersi perché la spietata vendicatrice della sauna ritorni in epilogo di film, con un'altra acconciatura e un'aria decisamente più rilassata, a interpretare un cameo di cui nessuno sente il bisogno. Delle due, l'una: o si privilegia il finale aperto, oppure si trova un compromesso capace in qualche modo di legare il tutto.
Sembra che Zhangke si diverta a tenere il piede in due scarpe, tanto per sollazzare lo spettatore festivaliero doc, quello che ancora si scandalizza di fronte alle erezioni (cinematografiche) e agli spruzzi di frattaglie da macelleria, tanto per incuriosire il cinefilo più scafato: quello che si rompe gli zebedei dopo centotrenta minuti di dialoghi, panoramiche urbane e storie di ordinaria banalità. Ovvio, stiamo sempre parlando di un bel film, nel senso di non brutto, ma da qui a insignirlo di uno dei massimi riconoscimenti (paradosso, di sceneggiatura) ce ne corre.
Sarebbe bastato individuare dei punti di contatto tra questi personaggi senza dio né pietà, per se stessi e per gli altri, saldarli tra loro secondo un disegno appena più sofisticato, fatto di simmetrie, giochi ad incastro e connessioni narrative. Ma al contrario, i fili del copione non si annodano, e a tratti pare di assistere all'odissea tutta umana di individui che entrano ed escono dal palcoscenico sbirciando la mimica consolatoria di un regista che dirige ormai per improvvisazione.
Il secondo episodio non lascia dubbi, come si accennava in apertura di articolo, tanto che ci si addormenta dopo cinque minuti di non-esposizione di fatti per risvegliarsi, bruscamente, con una postilla a base di membra trafitte da pallottole. Zhangke poteva risparmiarci il supplizio e puntare dritto sulla rappresentazione della morte che tanto gli sta a cuore: ne avremmo beneficiato tutti, soprattutto la pellicola, sforbiciata da qualche caduta nella noia. E non parliamo dell'ultima storia, troppo simile a una vicenda frettolosamente appiccicata al metraggio che a un racconto in linea con i precedenti.
Pensate a registi tutti europei, tutti contemporanei, come Michael Haneke e Ulrich Seidl, cosa avrebbero potuto ricavare da un tema del genere (e di genere).
Invece ne resta un grande affresco sociale, sospeso nella sua insicurezza, di scrittura e non solo.
Mario G & Marco Marchetti