"A little piece of you
The little peace in me
Will die"
(da This is not America)
Siete mai andati in pezzi? Io sì, da poco. Guardi per terra e vedi solo le tue maschere vuote ormai inutili, i tuoi trucchi da prestigiatore che girano a vuoto come i giocattoli a molla di Sebastian feriti in Blade Runner.
"Don't look at the carpet; I drew something awful on it" (da Breaking Glass, canzone peraltro assente dalla lussureggiante colonna sonora del musical).
Si finisce come la stanza del vecchio Thomas Jerome Newton-Bowie-Agnelli: incapace di vivere su questo pianeta di uomini meschini, impossibilitato a lasciarlo per tornare al proprio nello spazio, ma incapace anche di morire, a causa del suo invecchiamento più lento di quello umano. Stravaccato in poltrona fra un teschio, uno scafandro da astronauta ormai inservibile, l'ormai inseparabile bottiglia di gin. Circondato da cinque schermi televisivi, in cui non vede più - come nel film di Nicholas Roeg di cui questo LAZARUS (in alto il poster italiano, a destra l'originale locandine 'spaziale' dell'edizione tedesca) è un ideale sequel - un caleidoscopio di immagini sulla vita dei terrestri che l'alieno Newton doveva imparare ad assimilare, bensì un vorticoso hellzapoppin' di schegge della sua vita, della sua psiche infranta.
Rispetto alla trama originaria di Walter Tevis, in cui il mite extraterrestre fungeva da cartina di tornasole per satireggiare una società americana consumista, avida e sicuramente più violenta del presunto "invasore", quella del musical scritto da David Bowie con Enda Walsh è un trip nell'inner space del migrante interstellare, ossia del suo autore, che quando gli diede forma era a sua volta invecchiato, malato e sapeva che i suoi giorni su questo pianeta s'andavano drammaticamente accorciando: Newton viene visitato da Elly, la danzatrice/coreografa Michela Lucente, che la sua mente sovrappone alla cameriera Mary-Lou di cui s'era innamorato nel libro/film, e che gli danza intorno moltiplicata in altre tre streghette macbethiane dai capelli blu.
Poi arriva la tenera Girl/Marley (la 20enne Casadilego dai capelli verdi), che si propone di aiutarlo col balsamo della speranza, convincendolo che forse non è impossibile costruire lì in casa un nuovo razzo per riprendere la via delle stelle verso il suo remoto pianeta di Anthea.
Ma anche lei è una visione: Marley era sì una persona reale, ma è stata uccisa tempo addietro da Valentine (Dario Battaglia, qui a sinistra e sotto con Elly), forse un altro alter ego del protagonista in trench di pelle e parrucca albina da Warhol: vistoso omaggio all'epoca glam (celebrata con All the Young Dudes), ma personaggio antipatico e malvagio, killer per svago.
La scrittura di Bowie, che nel corso dei suoi 50 anni di musica ha assimilato il Dylan e il cut-up, Lou Reed e il cyberpunk, la tecnologia del verbasizer, performance e body art, non è affatto lineare: non è facile seguire il suo filo narrativo, mentre non è difficile intravedere in questi personaggi/proiezioni/riflessi altrettante schegge rielaborate da altri concept della sua lunga carriera musicale, come ad esempio Baby Grace, vittima nel concept album 1.Outside (che all'agognata trasposizione teatrale non arrivò mai, ma per ora deve accontentarsi della mia Soniche Oblique Strategie), oppure John Blaylock, giovane amante di Catherine Deneuve precocemente invecchiato ma impossibilitato a morire in Miriam si sveglia a mezzanotte, il film di Tony Scott.
I recitati sono in verità brevi siparietti surreali di pochi minuti, intervallati dalle straordinarie interpretazioni musicali delle 17 canzoni del "Biondo" che costituiscono l'ossatura della drammaturgia musicale dell'opera, nella quale incredibilmente i testi (che leggiamo tradotti in italiano sul display in sala) sembrano misteriosamente tutti già scritti con un occhio alla tessitura del musical: il che - se è pensabile quando si tratta delle canzoni più recenti, come l'eponima Lazarus, la struggente No Plan, inediti che ho immediatamente rivalutato come When I Met You o Killing a Little Time, oppure le toccanti Love Is Lost e Where Are We Now? dal penultimo The Next Day - lascia invece davvero spiazzati quando si tratta di vecchi classici come la già citata This is not America, o Absolute Beginners (tra l'altro, entrambi brani scritti negli '80 per accompagnare film diversissimi); una canzonetta quest'ultima che avevo sempre considerato una furba marchetta e che invece nell'interpretazione di Manuel Agnelli esplode un forza drammatica assolutamente insospettata.
Purtroppo, nonostante tutte le interviste in cui Manuel si è sperticato a spiegare che Lazarus "non è il karaoke di David Bowie, non siamo una tribute band" e così via, gli scrosci di applausi a ogni brano (pur meritatissimi) fanno capire che in buona sostanza questa è la percezione generalizzata dell'opera da parte di un pubblico formato a Zelig e X-Factor.
Opera nella quale, va detto, è stato invece profuso un lavoro straordinario per il teatro italiano: dal regista Valter Malosti, che ha tradotto il testo sotto l'occhio vigile della Bowie Foundation e allestito per la produzione dell'ERT una stanza rotante su piattaforma assai più buia e cupa rispetto all'originale broadwayano, aumentando la drammaticità rispetto alla componente classicamente musical; dall'intero cast di undici attori/cantanti/danzatrici (oltre ai citati, Attilio Caffarena, Maurizio Camilli, Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, Camilla Nigro, Isacco Venturini) e dai sette musicisti (Laura Agnusdei, sax tenore e baritono, Jacopo Battaglia alla batteria, Ramon Moro, tromba e flicorno, Amedeo Perri, tastiere e synth, Giacomo “ROST” Rossetti al basso, Stefano Pilia e Paolo Spaccamonti alle chitarre).
Nonché dal lavoro sui suoni di GUP Alcaro e dalla notevole, essenziale regia video di Luca Brinchi e Daniele Spanò, che oltre a sparare clip e videointerferenze nella stanza di Newton integra le scene recitate sul palco con altre che si svolgono sugli schermi, interagendo con la scena e facilitando il compito agli attori.
Viene davvero da augurarsi - insieme al sito del fan club Velvet Goldmine - che, oltre alla preannunziata pubblicazione dello script da parte de La Nave di Teseo, ne venga presto realizzato un DVD, o almeno un album della colonna sonora, perché - avendo appena ripassato il CD pubblicato con le versioni del cast originale americano (v. copertina a lato) - va detto senza giri di parole che le interpretazioni della band/cast italiani sotto la guida di Manuel Agnelli sono nettamente superiori: anche qui meno broadwayani, più personali e originali.
Pur confrontandosi con originali che sono un colonnato di cippi marmorei della Storia del Rock, qui siamo di fronte ad alcune delle migliori interpretazioni del Bowie songbook, e intendo a livello internazionale, non solo italiano.
Mario G