Ve l’avevamo preannunciato come uno degli horror che segnerà l’annata 2013 ed eccoci qui – smaltito l’embargo – a sostanziare con una recensione più completa il giudizio sull'ultimo film di Rob Zombie, in distribuzione (Notorious Pictures) dal 24 aprile in circa 200 sale dell'indemoniato Belpaese..
C’è chi sicuramente continuerà a pensarla così (qualche voce captata all’anteprima stampa), c’è chi ha rimproverato alle Streghe di Salem un eccesso di onirismo allucinatorio lynchiano (ma avercene!), a discapito della leggibilità della trama. Che, ormai lo sanno anche i sassi, vede la radio d.j. Heidi Hawthorne (Sheri Moon Zombie, invidiabilissimo culetto del pulp zombieano, che vedete al microfono qui a sinistra e nella camera da letto cinefila sotto a destra) sprofondare in “stati di alterazione progressiva” dopo l’ascolto del misterioso vinile dei Lords Of Salem (titolo originale del film), recapitatole in radio altrettanto misteriosamente.
Si apprende così che la giovane rockettara è lontana discendente del persecutore delle streghe del famigerato processo del 1692 e che per questo le birbaccione sataniche han pensato proprio a lei come portatrice del seme del demonio per tornare ad occupare il posto che loro spetta nel secolarizzato mondo del XXI secolo.
Come accennavamo nel precedente articolo, il plot si situa chiaramente sulla linea di Rosemary’s Baby e del sottovalutato ma inestimabile La Setta di Soavi. Sento già l’insorgere dei detrattori al solo nominare il capolavoro di Polansky, roghi pronti e grida bestiali: beh, ragazzi, questa è la tematica, non ho detto che i due film si assomigliano. Il primo sviluppa il plot da un punto di vista logico-razionale (la gestante Mia Farrow fatica a credere che sia “tutto normale” quel che accade intorno alla propria gravidanza e al marito Cassavetes da parte di quegli asfissianti vicini). Il secondo sposta il punto di osservazione all’interno della mente di Sheri Moon-Heidi, vieppiù minacciato dall’infezione del Maligno e attraversato da visioni che distillano sapientemente tutto l’immaginario infernale che va da Bosch a Bacon fino all’immancabile Lynch-degli-incubi e alla videoclipperia goth metal di cui (si diceva) il regista è vigoroso esponente. Esponente ormai evoluto, però, questo non si può nascondere: la fotografia granulosa di Brandon Trost sa di quelle atmosfere anni ’70 perennemente rievocate come la golden age of indie horror, di Tobe Hooper e Wes Craven, sì, ma anche – per avvicinarci allo specifico – di In Corsa col Diavolo di Jack Starrett (1975). Il cast comprende il collega d.j. nero Ken Foree (ormai un’icona horror), Bruce Davison (da Fragole e Sangue ad America Oggi), mentre le streghe hanno i volti di Dee Wallace (Le Colline Hanno gli Occhi, guarda un po’) e Meg Foster (Essi Vivono di Carpenter): un casting che definire “tarantiniano” non è certo peccare di lesa maestà. La recitazione è valida e intensa in tutto il team, cosa che spesso invece è un punto debole di molti horror: fortunatamente ci vengono risparmiati i sacrificabili ragazzini beceri con fidanzate sgallettate.
Del resto questo non è uno slasher da drive in ma un film d’atmosfere, quindi (altra novità per Zombie) gore e body count stanno ai minimi storici della sua filmografia. A chi rimprovera la visionarietà del lussureggiante apparato iconografico del film di essere più o meno un trip senza capo né coda risponderemo con le parole di Alan Moore: “Parla dell’arte di resuscitare i morti per farci rivelare quello che sanno. È un ponte, una zona di passaggio, un punto logoro nel velo che separa il nostro mondo dagli inferi, tra i mattoni e il mito, tra verità e finzione…” (tratto dal suo romanzo La Voce del Fuoco; Moore spiega il senso del romanzo e al contempo definisce poeticamente un concetto di magia). Ecco perché, ben più del Salem’s Lot di King/Hooper – filmetto televisivo di vampiri – Le Streghe di Zombie possono essere accostate al citato La Setta (non sappiamo se Rob l’abbia visto, in Italia è un culto di pochissimi). Il film di Michele Soavi guarda caso inizia in una comune hippy nel ’70, in cui si parla dei messaggi occulti contenuti nelle canzoni dei Rolling Stones (come sappiamo, realmente sedotti dal mito di Crowley, insieme a Jimmy Page, Ozzy Osbourne, Kenneth Anger etc., proprio per quella promessa della moderna magia di portarci Oltre la coscienza razionale). Per poi spostarsi al tempo presente, in cui la Setta dei Senza Volto mira a far nascere l’Anticristo dal corpo della bella Kelly Curtis (come in Rosemary’s Baby, appunto), la quale sprofonda progressivamente in un incubo in cui anche noi perdiamo con lei il senso della realtà, incubo realizzato con un corredo visivo esoterico-surrealisteggiante, peraltro di grande fascino, molto superiore all’horror americano medio. Tornando a Le Streghe di Salem, altro pregio del film è lambire con competenza l’altro tema rock/magik (certamente non nuovissimo), ossia quello dei messaggi satanici incisi con subliminale perfidia fra i solchi dei dischi, in particolare nel metal: una leggenda metropolitana che per anni ha tenuto svegli giudiziosi prelati pro censura (soprattutto americani, per fortuna). Atteso al varco sull’opposta barricata dai metallari intransigenti – già col canino levato per tema di trattamenti inquisitorî nei confronti del black metal, che del satanismo ha fatto bandiera – Le Streghe di Salem si disimpegna elegantemente tanto dai timori di moralismo dell’irsuta congrega, quanto dalle secche adolescenziali in cui son franati storici tentativi di dare forma filmica al demoniaco abbraccio metal-horror, come ad esempio l’infame Morte a 33 Giri. Un crimine (ricordiamolo) diretto nel 1986 dall’esecrabile Charles Martin, purtroppo non punito con l’impedimento legale a girare altra pellicola; crimine che - visto oggi - spaventa come una puntata di Happy Days, diverte poco meno e riesce pure a chiudersi moralisticamente, ossia avallando implicitamente il concetto che voleva contrastare coi simpatici cameo (unico pregio del film) di Ozzy Osbourne (predicatore antimetal) e Gene Simmons (il d.j.): mostrando il babau metallaro suicida, demonificato, diventare minaccia letale per il suo stesso fan: insomma, purissimo miele per gli occhi cardinalizi! Ok, perdonate quest’altra divagazione (me lo son sciroppato a scopo documentale, dovevo espettorarlo): tornando a Rob Zombie, lui invece lascia accortamente la questione di sfondo: l’album incriminato non è neppure esattamente black metal (sembra più un noise astratto alla Metal Machine Music, QUI in anteprima la clip relativa). Fondamentalmente è solo il veicolo dell’infestazione demoniaca della protagonista (che invece vedete QUI), ma la querelle ideologiche su musica e perdizione dei giovani ci viene apprezzabilmente risparmiata.
Si largheggia invece con ottimo rock d’annata (Velvet Underground, Rush, Manfred Mann, oltre alla colonna sonora originale, affidata nelle mani del fidato John5, chitarrista della band del regista. Quando si dice un prodotto fatto in casa…
Ciò che fortunatamente non ci viene risparmiato affatto, invece, è il coté erotico dell’indemoniamento: molte voci erano circolate sui tagli inferti alla pellicola zombiana per la distribuzione in USA, in particolare le famigerate scene della fellatio al prete e la grande “pala d’altare” blasfema coi cardinali masturbanti falli di gomma dai colori fluo. Non vi tolgo il ‘guilty’ pleasure di scoprirvele da voi stessi, ma vi rassereno che la copia proiettata (con audio originale) all’anteprima stampa era completa anche delle scene che si temeva di dover recuperare solo negli extra del dvd.
Concludendo, Le Streghe di Salem lascerà qualcuno basito (è già accaduto) per l’andamento meno slasher e più allucinatorio rispetto ai passati lavori del rocker-movie maker, ma questa svolta segna la definitiva maturazione del suo autore al ruolo di nome-guida dell’horror americano al crocevia fra produzione indie e successo major.
Ora la definizione di “Tarantino dell’horror” non è più una metafora giornalistica di comodo. E se Rob è ben lontano dall'affilata maestria di Quentin nella scrittura dei dialoghi, ha invece dalla sua la Musica, che può farsi da solo, oltre che divertirsi a scovare dal gran baule del 'Rock Che Conta': anche il suo nuovo album Venomous Rat Regeneration Vendor (cover a destra), uscito in questi giorni, non tradisce le attese. Niente di totalmente nuovo, beninteso, ma la divertente miscela di hard rock anni '70 (la cover dei Grand Funk), metal, elettronica anni '80, industrial, brandelli di b-movie, sitar e psichedelia crossoverizzata, accenni di glam pop, insomma la ricetta-tipo dello Zombie sound è rispettata in pieno.Sparatelo alto in macchina mentre andate al cinema a vedere il film: potrebbe essere oggi quel che nel '76 era un disco dei Kiss e... aiutarvi ad evocare le Streghe.
Loro stanno aspettando, lo sapete... hanno sempre aspettato.
Mario G