Che Argo sarebbe stato il trionfatore dell’85ma edizione degli Oscar era più o meno assodato, ma è altrettanto vero che come da previsione non si è trattato di un dominatore assoluto. In un’annata piuttosto ondivaga in cui è mancato di fatto un candidato schiacciasassi in grado di sbaragliare la concorrenza, gli Academy Awards frazionano le loro scelte come raramente succede e spartiscono minuziosamente il bottino in palio: un merito indiscutibile, soprattutto in una stagione cinematografica in cui i titoli buoni erano tanti e il livello generale a dir poco soddisfacente.
Nonostante qualche esito discutibile e qualche statuetta non proprio irreprensibile (com’è inevitabile che sia), la notte delle stelle ha dunque il merito e la positività di aver premiato le infinite possibilità delle visioni molteplici, attraverso dei premi piuttosto tiepidi e non particolarmente calorosi verso un titolo in particolare ma che al contempo riconoscono i meriti più o meno oggettivi dei singoli film, a tutto svantaggio del proverbiale “effetto carrozzone” che tanti danni aveva prodotto in certe passate edizioni (si pensi, ad esempio, all’affermazione datata 2008 del discutibilissimo The Millionaire).
Il trionfo di Argo è un successo che ha dalla sua un ricco retroterra che ambire a definire politico non è faciloneria né sensazionalismo spicciolo: la positività energica con cui Ben Affleck rinfocola il cinema civile americano degli anni ’70 è segno tangibile e rispondenza diretta di una Hollywood che impone il suo volto migliore nel mondo, che rende giustizia alla facciata più radiosa e propositiva dei colori statunitensi in territorio medio-orientale: una spinosa situazione spionistica in Iran risolta positivamente attraverso l’imbastimento produttivo di un finto film di fantascienza da realizzarsi, con tanto di sopralluoghi a caccia di location, è una congiunzione troppo suggestiva e una celebrazione fin troppo luccicante e ghiotta di un certo eroismo americano nel mondo per lasciarsela sfuggire.Va detto che Affleck ha il merito di evitare tanto la celebrazione patriottarda quanto le pose più problematiche e smaccatamente liberal, finendo in tal senso per portare a casa il film in assoluto più obamiano dell’anno, al di là dell’apparizione finale di Michelle Obama in collegamento dalla Casa Bianca che è comunque una novità curiosa e interessante e che di sicuro non costituisce punto a sfavore di una simile chiave di lettura. Un film probabilmente ben più in linea con l’attuale politica a stelle e strisce di quanto lo fosse il colpevolmente tralasciato Re della terra selvaggia (ma era prevedibile) o il democratismo dello sguardo spielberghiano in Lincoln, con assonanze suggerite tra i movimenti e le mosse politiche dell’Abramo nazionale e certe battaglie compromissorie obamiane legate all’attualità politica degli USA. Un’affermazione suggellata, oltre che dall’Oscar come miglior film, dai premi come miglior montaggio e miglior sceneggiatura non originale a Chris Terrio.
Il vero escluso della serata, in realtà, è però proprio sua maestà Steven Spielberg, che porta a casa un premio per le scenografie poco prevedibile e un ineccepibile Oscar al miglior attore protagonista per il mostruoso e sorprendentemente ironico Daniel Day-Lewis (“Mi volevano per The Iron Lady”, ha detto, ricevendo il premio dalle mani di Meryl Streep), decisamente troppo poco per un film plurinominato alla vigilia (12 nomination). Un trattamento che ha fatto rivivere l’aspro ostracismo cui alcuni valenti titoli di Spielberg quali Munich e soprattutto Il colore viola furono condannati in passato, confermando la tendenza dell’Academy a punire lo Spielberg meno classicamente accomodante e la sua vena più analitica: quella, per intenderci, che non si limita né alla mirabilità della ricostruzione di opere come Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan (i suoi due Oscar per la miglior regia) né al favolismo hollywoodiano che l’ha reso iconico.La scelta di premiare al suo posto Ang Lee rientra invece proprio nelle prese di posizione discutibili cui si accennava sopra, l’ennesimo riconoscimento a un regista senza ombra di dubbio dotato e coraggioso ma che vista la carne al fuoco e il fior fiore che la categoria offriva quest’anno appare fin troppo tirata per i capelli. Anche il riconoscimento di un neo-cinema digitale e del raggio sconfinato delle potenzialità visive e grafiche ad esso connesse, che in Vita di Pi sono comunque messe in campo mirabilmente, appare una scelta furba, travestita da finta modernità ma in realtà ostile a riconoscere la forza eversiva del gesto registico a tutto vantaggio dell’esoticità e dei rischi materiali più che intellettivi collegati al suo esercizio.
Quasi che il cinema fosse solo un’arca magica e creativa spogliata della sua vera sostanza e risonanza: un’ideologia che è anch’essa molto in linea con i parametri dell’Oscar, indubbiamente. Oltretutto Vita di Pi si laurea senz’altro a sorpresa come film in assoluto più premiato (oltre alla regia, anche fotografia, colonna sonora ed effetti speciali).
Per il resto, strameritata la miglior sceneggiatura originale a Tarantino per il suo incommensurabile e totalizzante atto d’amore al cinema, probabilmente il più bello e compiuto della sua carriera (quel Django Unchained il cui peso specifico forse verrà afferrato doverosamente col tempo, ci si augura). Così come lo sono i premi a Anne Hathaway e Christoph Waltz come non protagonisti e a Jennifer Lawrence come attrice protagonista, anche se com’è logico che sia in simili casi ognuno si ritrova legittimamente a rivendicare i suoi candidati del cuore. Nessuno dei premiati, però, era inferiore ai suoi diretti concorrenti e le statuette attoriali si confermano territorio in fondo particolarmente oculato.
L’andamento della serata, culminata con l’esagitato e sentito discorso di ringraziamento di Affleck (“Non importa quanto vieni buttato a terra nella vita, perché accadrà, però quello che conta è rialzarti”) si conferma però discutibile e non eccezionale dal punto di vista dello show: il tema canoro offre ottimi momenti musicali (Adele, la performance canora del cast de Les Misérables al completo) ma il ritmo come sempre ne risente, con un Seth MacFarlane ottimo performance canterino ma dal quale ci sarebbe aspettato, conoscendolo, qualche affondo di sano unpolitically correct decisamente più corrosivo.
Ecco quindi l’elenco completo dei premiati, in un ordine che ricalca fedelmente quello della cerimonia:
Best Supporting Actor:
Christoph Waltz - "Django Unchained"
Best Animated Short:
"Paperman" - John Kahrs
Best Animated Feature:
"Brave" - Mark Andrews and Brenda Chapman
Cinematography:
"Life of Pi" - Claudio Miranda
Visual Effects:
"Life of Pi" - Bill Westenhofer, Guillaume Rocheron, Erik-Jan De Boer and Donald R. Elliott
Costume Design:
"Anna Karenina" - Jacqueline Durran
Makeup/Hairstyling:
"Les Misérables" - Lisa Westcott and Julie Dartnell
Live Action Film:
"Curfew" - Shawn Christensen
Documentary Short Subject:
"Inocente" - Sean Fine and Andrea Nix Fine
Documentary Feature:
"Searching for Sugar Man"
Sound Mixing:
"Les Misérables" - Andy Nelson, Mark Paterson and Simon Hayes
Sound Editing:
"Zero Dark Thirty" - Paul N.J. Ottosson, ex-aequo con "Skyfall"
Supporting Actress:
Anne Hathaway - "Les Miserables"
Film Editing:
"Argo" - William Goldenberg
Original Score:
Mychael Danna, "Life of Pi"
Original Song:
Adele - "Skyfall"
Adapted Screenplay:
Chris Terrio, "Argo"
Original Screenplay:
Quentin Tarantino, "Django Unchained"
Director:
Ang Lee, "Life of Pi"
Best Actress:
Jennifer Lawrence, "Silver Linings Playbook"
Best Actor:
Daniel Day-Lewis, "Lincoln"
Best Picture:
"Argo"