Il palco è nudo. Al centro una tribuna da impianto sportivo. Luci bianche forti da palasport. Sulla tribuna, cinque performer con magliette e sciarpe da possibili tifosi di una qualche squadra atletica. Sulla destra, altri cinque performer si allenano sbuffando. L'undicesimo ballonzola in giro vestito da majorette, con gonnellino e pon pon.
In alto l'artista, la belga Miet Warlop, blatera una tiritera inintelleggibile di presumibile radiocronaca dell'evento in francese misto fiammingo, con effetto megafono sulla voce.
Finalmente, l'azione ha inizio: l'unica performer a piedi nudi si porta alla trave, sale e in equilibrio su di essa suona il violino, facendo contemporaneamente virtuosistici esercizi alzando una gamba a squadra. Uno dei quattro atleti maschi in tuta e scarpe ginniche si sdraia a terra, imbraccia il contrabbasso e lo suona facendo addominali. Un altro corre da destra a sinistra percuotendo i diversi tamburi e piatti disseminati come attrezzi ginnici sul palco. L'ultimo s'accosta a una scala svedese, dove in alto e fissato un piccolo synt e lo suona saltando su una piattaforma elastica che gli dà lo stacco necessario a raggiungere i tasti con le mani.
Così si va componendo un bizzarro brano musicale minimalista - che potrebbe ricordare qualcosa di Laurie Anderson o dei Tuxedomoon sempre più adrenalinici - performato attraverso i movimenti da gara sportiva dei danzatori "atleti", nel "bagno di sudore, bruciando tutto l’ossigeno possibile" di cui parlano le note sullo spettacolo.
La scena si fa infatti sempre più frenetica, i performer cantano (uno in particolare canta al microfono ritmicamente), "creando immagini e manipolando oggetti, cercheranno d’oltrepassare i propri limiti", mentre gli "spettatori" tifano sempre più veementemente. Il crescendo dura circa una mezz'ora, nella quale il sottoscritto pensa che se esistesse un CD della lunga suite musical-minimalista potrebbe anche comprarselo da riascoltare. Dopo un crescendo con scrosci d'acqua dal graticcio sui tamburi con spruzzi come fontane, i performer crollano tutti sul palco, come sfiniti dalla massacrante prova fisica. Possiamo sposare senza remore la definizione del New York Times riportata sul sito del teatro di «rumoroso, assurdo e incredibilmente divertente».
Sembra che la "competizione" sia finita, gli atleti si dedicano ad asciugare il palco con cenci, finché la "radiocronaca" della commentatrice ricomincia e poco dopo la performance riprende. Ma è successo qualcosa. Cioè non è successo niente: la scena riprende simile a prima, il brano minimalista suonato attraverso la gara sportiva è sempre il medesimo, non c'è alcuna evoluzione significativa, se non che alla fine viene composta una specie di parete di mattonelle di gesso bianco sul fondo, ogni mattonella un monosillabo: You - Will - Do - Ok - Ever e così via, purtroppo seduti sulla poltroncina non si riesce a leggere compiutamente, ma non mi è sembrato che la composizione completa desse una frase di senso compiuto. E quindi? Dove Le Monde ha colto «uno spettacolo emozionante, che cattura la vita e le sue infinite variazioni»?
Sempre stando alle note del teatro, Miet Warlop – artista visuale belga, classe 1978, attiva tra Ghent e Bruxelles, dal 2004 affermatasi sulla scena internazionale - ha creato una performance "concepita come un antidolorifico per il mondo”. Bene, personalmente, io vedo sì lo "sforzo fisico come metafora", ma "una lotta contro il tempo, (...) in cui presente, passato e futuro si incontrano in modo unico", purtroppo non ho proprio capito dove si annidasse. Insomma, originale l'idea di rappresentare un concerto musicale come se fose un evento sportivo, notevole l'abilità fisica della violinista-ginnasta (nella mia foto qui a sinistra anche bassista in bilico), ma la metafora, l'invito "a formare una comunità e a trascendere noi stessi. Così che il particolare possa diventare universale e il personale diventare collettivo" non mi è proprio arrivato.
Forse il problema è un po' sempre quello dell'arte concettuale: vedo un blocco di caolino grezzo e, se non so tutto di Joseph Beuys, della sua militanza nella Wehrmacht, di stanza in Puglia durante la II Guerra Mondiale, il suo incontro coi materiali con cui erano costruite le case di quei luoghi per lui nuovi, vedo solo un blocco di caolino grezzo e non capisco cosa dovrebbe significarmi.
La performance concettuale in teatro manca di quella struttura drammaturgica - non oso dire della trama che in qualche modo ogni testo reca in sé, per non sembrare troppo rétro - che ti guida dall'azione scenica significante verso il significato desiderato dall'artista. Che, in questo caso, apprendiamo, rispondeva alla domanda posta da un altro regista - Milo Rau - ossia «Qual è la tua storia come artista teatrale?».
Poi, nessuna visione è mai inutile, chiaro: l'uso degli strumenti musicali in scena sarà sicuramente prezioso per le performance ideate dal mio personaggio narrativo Alvaro Cortez - il regista teatrale di Buio in scena - la cui saga si sta avviando a comprendere un romanzo, un testo teatrale illustrato, (forse) un film ma sicuramente un secondo romanzo, più due racconti autonomi pubblicati in altrettante antologie (di cui la seconda è ancora in gestazione). E chi ha letto sa quanto la musica conti nell'economia delle peripezie del Cortez, dei suoi carcerati, della cantante RozzMary...
Perdonate la divagazione personale, è che alla fine tutto si collega: ONE SONG – HISTOIRE(S) DU THÉÂTRE IV non cambia la mia visione del teatro ora ma tutto quel che si vede genera qualcosa che prima o poi ritornerà rielaborato in nuove forme.
Mario G