Immaginate, sforzando un po’ la vostra fantasia per assurdo, un Hitchcock ancora vivente che vada matto per la magnifica serie The Walking Dead e che poi si ritrovi davanti il film di Marc Forster World War Z, con un Brad Pitt dall’immancabile chioma bionda e fluente qui più tornita che mai, irremovibile come un blocco d’avorio anche nelle situazioni più rischiose e al limite della sopravvivenza (nel cuore degli anni ’90, l’idea che la pelata di Bruce Willis non subisse stravolgimenti era di sicuro più credibile…).
Ecco, a pensarci bene non è poi così difficile prevedere la sua reazione dinanzi al secondo dei due prodotti citati, che di fatto si configura come un The Walking Dead con tutte le parti noiose presenti, privato di veri elementi di ansiogeno interesse in grado di incollare lo spettatore allo schermo e coinvolgerlo visceralmente.
Il film di Forster osserva il morbo pestilenziale e l’orda di zombie famelici mai davvero mostrata dall’alto di un elicottero, in un gioco di reticenze che si vorrebbe iperrealistico e razionalista ma che invece si riduce ad essere soltanto anemico e avido di veri sussulti. Una precisa dichiarazione d’intenti, che relega la catastrofe in lontananza quasi sempre, se si esclude l’adrenalinico inizio. Un momento, quest’ultimo, nel quale si vede perfino qualcuno che di sottecchi è intento a filmare l’accaduto con un cellulare. Ma nessuna suggestione all’orizzonte dettata da false apparenze o sottotesti da applicare pretenziosamente: World War Z è quasi un film alimentare, lontanissimo da 28 Giorni Dopo e dalla lucidità teorica di Contagion che sono i suoi referenti più diretti (specie il secondo, ben più recente), arrabattato un po’ alla bell’e meglio a partire dal libro di Max Brooks (figlio di Mel). Un volume (copertina italiana qui a sinistra) in grado di irretire a tal punto Brad Pitt da indurlo a produrre il film con la sua Plan B e da interpretarlo in prima persona. Rispetto alle innumerevoli e frammentarie direzioni narrative del romanzo il film però sceglie un approccio inevitabilmente semplificatorio, introduce un protagonista centrale e si abbandona stancamente alla regia di un mestierante non eccelso ma tutto sommato affidabile come Marc Forster. Considerando che alla sceneggiatura c’è addirittura Damon Lindelof, non certo una delle penne più affidabili su piazza e la mano discutibile dietro quell’aborto che fu Prometheus di Ridley Scott (QUI la nostra recensione, ben più positiva del giudizio di Davide, NdR), non si naviga certo in acque particolarmente estasianti. Il film soffre pertanto dell’indecisione in fase di stesura della sceneggiatura, di moltissime modifiche e rimaneggiamenti alcuni dei quali occorsi perfino sul set a riprese avviate, con molte sequenze e presenze attoriali che danno l’idea di essere state sforbiciate dal più goffo e inesperto dei sarti maldestri.
In questa variante con steroidi del glorioso filone di film sugli zombie che fu, c’è una scena in supermercato ma tutto, in questo caso, sembra già saltato per aria e privato di vita ed elettricità, in preda a un caos già manifestatosi ma non pervenuto sullo schermo a beneficio dello spettatore.
Astenersi fondamentalisti del grande George A. Romero, dunque. Non ci sono barricate (vere), non c’tensione reale neanche nelle sequenze più cinetiche, Brad Pitt asserisce che scappare è l’unica via per la sopravvivenza e che “el movimiento es vida” ma World War Z, nel suo bolso affannarsi, alla terza scenetta ricalcata sulla precedente e sempre uguale somiglia a quanto di più statico ci si possa ritrovare davanti. Per impreziosire un po’ tali schemi assai bolliti con qualche contorno di anche solo magro interesse il film prova allora a ripiegare su delle scene che evidenzino una matrice etica e morale quanto più familista possibile.
Gli unici momenti di pathos - si fa per dire - sono pertanto circoscritti alle sequenze in cui il personaggio di Pitt si ritrova internato in spazi oscuri con la sua famiglia, a condividere con essa i patimenti e le speranze sempre più flebili di salvezza. Nelle fasi iniziali si prova a dare consistenza a quest’aura da presepe post-apocalittico aggiungendo alla coltre di consanguinei protagonisti anche una famiglia spagnola, ma è solo l’esile, ennesima apparizione fugace di un film che sembra limitarsi a lanciare sassi solo per poi nascondere la mano e ad accennare stimoli e canali comunicativi e narrativi in fin dei conti mai adeguatamente percorsi e sviluppati.L’ideologia estetica votata alla vena più realista, che vorrebbe fare il paio con l’allargamento mainstream di una tipologia filmica il più delle volte direttamente connessa al genere cinematografico propriamente detto, si palesa pertanto come un’ambizione dalle gambe troppo graciline: la credibilità viene negata paradossalmente non tanto da un eccesso di parossistiche soluzioni action ma piuttosto da un montaggio che segmenta e tagliuzza senza scopo, errando alla ricerca di un senso e di un equilibrio compositivo che non arriva mai.
Il film di Forster si limita pertanto a mutuare vari riferimenti copiati e incollati dal solito film hollywoodiano con molti mezzi ma assai meno idee. Rimastica Isolated system dei Muse come tema solo strumentale (una delle poche scelte tutto sommato funzionali), fa leva su una regia d’ordinanza, si sposta un po’ pretestuosamente addirittura in Israele, ci regala perfino una delle figlie del protagonista dall’ingegno non troppo machiavellico né odisseico e un’apparizione fantasmatica di Pierfrancesco Favino che parla addirittura dei suoi figli a Roma. Niente di cui si sentiva poi troppo la mancanza, insomma.Considerando che si profilano dei sequel all’orizzonte (o per lo meno, si trattava della volontà originale…), verrebbe da dire, citando una battuta del film ma senza troppo entusiasmo: “Siate pronti a tutto, la guerra è appena iniziata”.
Davide E. Stanzione